Nel nostro paese si applicano ancora le scariche elettriche per casi gravi di schizofrenia. Ma nel resto d'Europa il ricorso a questi sistemi sta crescendo sempre di più. Anche se il mondo accademico è diviso sul tema

Ogni lunedì, mercoledì e venerdì, per tutti i mesi dell’anno, all’ospedale Montichiari di Brescia accompagno i pazienti che fanno la Tec, ovvero la terapia elettro convulsivante, nota come elettroshock. Luca è giovane, schizofrenico ma è fortunato perché ha scoperto per tempo di soffrire di un disturbo mentale e può curarsi senza buttare via anni di vita. A me non è andata così, io di anni ne ho persi tanti, senza sapere perché stessi in un certo modo. Nel 1973, a sei anni ho tentato il suicidio per la prima volta.

Nei trenta anni successivi, ci sono stati altri nove tentativi di suicidio e stati maniacali, prima che qualcuno mi dicesse che ero bipolare. Avevo 37 anni. È il 2010 quando per la prima volta percorro il corridoio che conduce alla sala del day hospital, dove faccio le Tec. Ci ritornerò altre tre volte nei tre anni successivi. Mi sono liberato dal fardello della sofferenza: la terapia mi ha restituito la lucidità, e mi ha fatto tornare la voglia di vivere». Questa è la storia di Giampietro Ferrari, “utente esperto” che oggi con l’associazione AITEC-Etica cerca di informare «su quello che erroneamente si chiama elettroshock».

Opinione
Elettroshock, non basta dire che fa bene al paziente per usarlo
24/8/2017
Una tecnica terapeutica che ha conosciuto fasi alterne: sperimentata per la prima volta nel 1938 da due neuropsichiatri italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, induce una crisi convulsiva con un passaggio di corrente elettrica attraverso il cervello per curare le malattie mentali. Accolta con entusiasmo negli anni ’40 e usata fino a metà degli anni ’60 la Pushbotton Psychiatry, come la definì un libro del 2002 sulla storia culturale dell’elettroshock in America, venne poi soppiantata dall’avvento della psicofarmacologia e solo verso la fine degli anni ’80 ha conosciuto un revival. Di cui poco si sa.

La psichiatria sociale su modello basagliano lo considera un trattamento obsoleto se non peggio: simbolo di una visione della malattia mentale legata al passato che porta all’annullamento dell’individuo. Repressiva e inumana. Un punto di vista condiviso anche dall’opinione pubblica che ricorda immagini brutali di film come “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e “La fossa dei serpenti”.

«L’elettroshock di oggi è diverso da quello presente nell’immaginario collettivo e molto meno traumatizzante sul piano emotivo. Lo si pratica secondo linee guida internazionali: in anestesia totale, con una dose di corrente molto bassa (inferiore a 5 volt) che stimola il cervello per pochi secondi (al massimo 6 o 8), e che ottiene una crisi convulsiva di 30-40 secondi. Gli elettrodi sono applicati sulla fronte sinistra e la tempia destra o bilateralmente (a seconda della patologia) e i parametri variano da un paziente all’altro», spiega Giuseppe Fàzzari, psichiatra che dirige l’Unità Operativa di Psichiatria agli Spedali Civili di Brescia, uno dei centri in cui si fa la Tec in Italia.

In teoria fra cliniche private e strutture pubbliche i centri sono 16, ma dove lo si fa davvero sono forse la metà e i pazienti circa 300 l’anno. «Quando a Milano mi sono specializzato in psichiatria ero contrario all’elettroshock, poi nel 1991 capitò qui una giovane con una depressione grave e disturbi psicotici post partum. Parlava di suicidio e i farmaci non le facevano granché. Decisi di provare e, con il suo consenso, fu sottoposta a 8 trattamenti. Il risultato fu sorprendente. Altri casi seguirono: riuscii a ottenere attraverso una donazione un apparecchio moderno per la Tec e convinsi direttore sanitario e comitato etico ad accreditare l’ospedale per questi trattamenti» continua Fàzzari. Era il 2005.

Intervista
"L'elettroshock elimina il lato umano dei pazienti"
24/8/2017
I casi nei quali la letteratura scientifica concorda sui risultati ottenuti dall’elettroshock sono le depressioni gravi con alto rischio di suicidio resistenti ai farmaci, e le forme maniacali o miste che non rispondono alle terapie. L’esperienza clinica ne ha poi dimostrato l’efficacia in altri disturbi mentali, come schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, sindrome ossessivo-compulsiva non rispondenti alle terapie. Una meta-analisi, ossia una revisione sistematica di diversi studi eseguiti per valutare efficacia e sicurezza della Tec (Ect, l’acronimo in inglese) pubblicata su Lancet, una delle riviste mediche più autorevoli, concludeva nel 2003 che il trattamento era «probabilmente più efficace dei farmaci nella depressione».

«Di solito all’elettroshock ci si arriva dopo anni di tentativi falliti: abbiamo provato di tutto perché non la Tec. I medici di base, ma anche gli psicologi e gli psichiatri ne sanno poco. All’università non se ne parla e non lo si insegna», dice Alessandra Minelli, psicoterapeuta dell’Università di Brescia. A riconoscerne l’efficacia sono l’American Psychiatric Association, l’American Medical Association, il National Institute of Mental Health, la Food and Drug Administration, e le corrispondenti organizzazioni in Canada, Gran Bretagna e altri Paesi europei.

Nel mondo si stima siano 2 milioni le persone sottoposte a Tec e solo negli Usa 300 mila. Sono cinquemila i pazienti trattati in Belgio su una popolazione di 11 milioni di abitanti, e dodicimila nel Regno Unito su una popolazione di 64 milioni di abitanti. Quanti siano esattamente in Italia non si sa. Gli unici dati ufficiali furono raccolti nel 2012 dall’allora ministro della Salute Renato Balduzzi e si parlava di 1.406 pazienti tra il 2008 e il 2010 (521 nel 2008, 480 nel 2009 e 405 nel 2010). Dopo di allora solo stime parziali. Un’indagine eseguita da Fàzzari ha concluso che nel 2014 sono stati trattati 18 pazienti a Oristano, 12 a Brunico, 63 a Brescia-Montichiari, 57 a Pisa, 110 alla casa di cura Villa Santa Chiara a Verona. Poche centinaia rispetto a Europa, Stati Uniti e Canada dove la Tec è considerata una terapia tra le tante disponibili e talora di prima scelta. «Ai convegni di psichiatria in Italia non se ne parla e siamo per lo più assenti a livello internazionale. Solo pochi di noi hanno contatti con centri di ricerca all’estero», sostiene Fàzzari. «Le ragioni di questo pregiudizio ideologico e acritico? C’è chi teme di dispiacere alle case farmaceutiche, chi lo vive come uno stigma e un conflitto con i propri principi. Qualora i clinici ne facessero richiesta, ben difficilmente gli amministratori accetterebbero di acquistare l’apparecchiatura, non perché costosa (25 mila euro), ma per il timore di critiche. La Tec non prevede un Drg nel tariffario della Sanità: è una terapia che non ha un ritorno economico».

Il Comitato nazionale di bioetica nel 1995, dopo aver esaminato le diverse posizioni scientifiche e aver valutato le più autorevoli fonti internazionali concluse che non vi erano «motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica». E il Consiglio Superiore di Sanità, dopo aver dibattuto le perplessità suscitate dal trattamento nel 1996 concluse che: «Il diritto del malato alla tutela della vita, della salute e della sua piena dignità di essere umano, in accordo con il Comitato nazionale di bioetica, rappresenta un aspetto centrale nella valutazione dell’opportunità di un trattamento medico e che tale diritto non può costituirsi in opposizione alla scienza, né può anteporle affermazioni o teorie di natura ideologica».

Intervista
"Elettroshock, cancellare la memoria non è una cura"
24/8/2017
Ma nel 1999 una circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi chiudeva: «La psichiatria attualmente dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale, a tal punto che la Tec risulterebbe quasi desueta almeno nelle strutture pubbliche sia universitarie che del Servizio Sanitario Nazionale». Una delle obiezioni avanzate dai detrattori dell’elettroshock è che non se ne conosce il meccanismo d’azione. Franco Basaglia, lo psichiatra che nel 1978 portò all’approvazione della legge 180 e al superamento dei manicomi, lo descrisse così: «È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. Ma anche in quella singola volta in cui la radio si aggiusta non sappiamo il perché».  Ribatte Marco Bortolomasi, psichiatra, direttore sanitario della Clinica Villa Santa Chiara di Verona: «Vari studi avvalorano l’ipotesi che la ripetuta stimolazione attivi fattori di crescita delle cellule nervose. L’effetto terapeutico è in rapporto a complesse modificazioni neurochimiche (di neurotrasmettitori e neurormoni) e neurofisiologiche come per gli psicofarmaci».

Un trattamento di solito prevede tre sedute di Tec alla settimana, a giorni alterni. «Per due settimane o più, a seconda della patologia, più o meno grave. In alcuni casi sono previste terapie di mantenimento: una ogni 3 settimane. Alcuni studi clinici controllati hanno dimostrato l’opportunità di questi richiami. Una cosa è certa, non esiste un’unica ricetta» spiega Fàzzari. Uno degli effetti collaterali della Tec è la perdita della memoria, anche se transitoria. Per Beppe Dell’Acqua, che lavorò a fianco di Basaglia all’Ospedale psichiatrico di Trieste, è a questo cervello “smemorizzato”, che si attribuisce il sollievo dalla sofferenza mentale. Con il recupero della memoria torna, a suo parere, anche la sofferenza. «Ma quando i farmaci non danno sollievo, non ti consentono di convivere con la malattia e tantomeno di vivere. Quando non esistono strutture che ti accompagnino in un progetto terapeutico o capaci di restituirti attraverso le relazioni e il lavoro un ruolo sociale? Io avevo sperimentato di tutto. Per me è stata l’ultima spiaggia e ora mi dico: perché non potevamo arrivarci prima?», conclude Ferrari.