La replica dopo la provocazione di Elvira Seminara: bisogna rafforzare l’autorialità ?di una voce, non “normalizzarla”. ?Il problema non è se un editore pubblicherebbe mai un Proust o un Gadda così come sono scritti. Il problema è se avrebbe senso oggi scrivere a quel modo

Chi affida l’immaginazione di un mondo alla scrittura ha un solo strumento per dar forma e concretezza a un universo complesso fatto di aspetti materiali e immateriali: luoghi, stati affettivi, la qualità di una luce : la lingua.

Ora, se ci si sofferma a leggere lettere, appunti, biografie di autori che oggi consideriamo stelle polari, spesso troviamo un misto di disperazione e senso di inadeguatezza riguardo al modo in cui quel mondo immaginato ha trovato la via delle parole. Per rendersene conto, basterebbe ricordare l’oblio che Kafka augurava ai propri libri, o l’esitazione con cui Flaubert parlava della sua Madame Bovary, nei giorni in cui trascorreva ore alla ricerca del “mot juste”.
È proprio a partire dalla ricerca della parola giusta che vorrei fare una riflessione da scrittrice che viene editata e da editor che lavora sui libri degli altri.
La polemica
Italiano addio: per colpa del mercato la lingua letteraria è sempre più povera
13/2/2018

L’emozione provata dinanzi a un racconto o un romanzo (non ancora pubblicato) ha quasi sempre a che fare con il ritrovarsi dinanzi a qualcosa, anche di apparentemente molto ordinario, che però non sembra sia stato mai pensato, immaginato e trasformato in linguaggio a quel modo, dove per linguaggio non intendo una singola parola, o un certo stile, ma tutto quell’insieme di scelte espressive e formali (scansione del tempo, voce narrante, modi di ordinare o scardinare trame) che concorrono a rendere quel mondo così com’è. Non mi interessa che quell’opera mi confermi nelle mie certezze riguardo alla letterarietà (cosa su cui ho molte incertezze, in verità), mi interessa ed emoziona piuttosto quanto quel racconto o romanzo alteri o sposti il confine di canoni, generi, tradizioni, visioni, modi di evocare la vita o di dar consistenza a universi non ancora concepiti (come i mondi di linee e punti immaginati dal reverendo Abbott in “Flatlandia”). Né mi interessa che immaginari, forme, scelte tematiche coincidano con la mia poetica, il mio gusto. Anzi, se c’è una dote che fa di un editor un buon editor è la capacità di mettere da parte le proprie predilezioni e stare in ascolto di un testo. Diversamente non farebbe altro che pubblicare sempre lo stesso libro.

La letteratura è linguaggio, certo, ma non ha i confini di una parola. Anzi, facendo questo mestiere, ho capito come sia difficile e necessario rinunciare a certe parole magnifiche cui si è affezionati, ma che nel contesto espressivo o narrativo finiscono per risultare fuori posto, non perché letterarie, ma perché dotate di una bellezza sbagliata. Non tutte le bellezze sono giuste per tutti i testi. E non tutte le bellezze sono autentiche.

In un mondo di smarrimenti come quello in cui viviamo, dove le parole accreditate per nominare cose «si disfano in bocca come funghi ammuffiti» (Hugo von Hofmannsthal), dove facciamo i conti, come nota il linguista Giuseppe Antonelli, con un “e-taliano” scandito da emoj più che da segni di interpunzione, credo che gli scrittori non possano che perseguire proprie strade, non per alzare bastioni contro una simile contemporaneità, ma anche per scandagliarla. La letteratura non è contro qualcosa. La letteratura è il luogo in cui tutto può approdare e accadere, ed è il modo in cui approda e accade che fa la differenza tra un’accettazione supina e un’assimilazione creativa libera.

Gli autori che compongono oggi la nostra letteratura non sono “figli” necessariamente di una tradizione culturale e letteraria italiana o europea, e si nutrono legittimamente di opere anche non letterarie. Non credo ci sia vera garanzia di vitalità per una cultura letteraria oggi, se non nell’accettare che ognuno si possa creare una tradizione più o meno letteraria, più o meno italiana, più o meno riconoscibile.

Certo ha ragione la scrittrice Elvira Seminara quando evoca il potere di una lingua eversiva, «smodata» lì dove deve esserlo, aperta a tutte le potenzialità espressive contro mortificanti semplificazioni. E fa di questa libertà una delle ragioni della necessità del fare letterario. Ma attribuire agli editor la responsabilità di spazzare via questa libertà in nome di una presunta normalizzazione significa far torto alla sensatezza e alla verità. Come dire che un editor sceglie un testo e un autore dal tratto autoriale per poi ucciderlo nella culla, e renderlo anonimo, quando proprio quel mestiere ha a che vedere con la comprensione delle potenzialità espressive e narrative di un certo universo, e con la conquista della forma il più possibile giusta per arrivare a qualcosa che possa avere il dono di suscitare emozioni, visioni, percezioni non così ovvie.

È il passo storto, inaspettato, e la carica conoscitiva che questo comporta che affascina davvero un editor. Il resto è lavoro ordinario, noia.

La bravura di un editor sta anche nel riconoscere la grandezza di uno scrittore come H. Selby Jr di “Ultima fermata a Brooklyn”, ad esempio, capace di prendere una lingua greve, ottusa, violenta e farne qualcosa di proprio e significativo, scardinando i confini di ciò che fino a quel momento è stato ritenuto letterario.
Perché gli scrittori non sono i guardiani della lingua né collezionisti di diamanti. Gli scrittori mi viene da immaginarli piuttosto come sismografi o scandagli. E hanno il dovere di perseguire ogni strada espressiva e immaginifica, per essere all’altezza del proprio tempo e delle proprie intuizioni, dando forma a un sentimento della contemporaneità, che è diverso dal tempo e dalle circostanze in cui hanno vissuto gli autori che li hanno preceduti. Il problema non è se un editore pubblicherebbe mai un Proust o un Gadda così come sono scritti. Il problema è se avrebbe senso oggi scrivere a quel modo.

D’altro canto, gli scrittori non hanno mai dato per scontata la lingua. Se la sono conquistata in base al mondo che hanno concepito nelle circostanze in cui lo hanno concepito. Anzi, gli scrittori vivono tutti, da sempre, una condizione di peculiare semianalfabetismo piuttosto, quello di chi deve immaginare una lingua per dar vita a ciò che non è stato mai pensato e immaginato prima in quel modo. Nella mia esperienza di scrittrice editata da terzi, di editor che ha imparato il mestiere da altri editor, posso solo dire che parlare di editing in generale è come parlare dell’amore in generale, cioè di un simulacro vuoto, visto che l’editing si misura sulla pagina di un certo libro, riga dopo riga, accanto a un autore che si fida di quell’editor perché sa che l’unica cosa che conta per entrambi è quanto territorio di quel mondo non è ancora emerso, quante potenzialità potrebbero andare perdute, quanta lingua ha ancora la bruttezza dell’approssimazione o di una bellezza artificiosa. La letterarietà non è un valore assoluto, la letteratura è un valore relativo. Prende forma e vita in un certo testo.

Normalizzare un autore in nome della leggibilità - se non si è degli editor incapaci - sarebbe come perseguire due miserie in una: una miseria espressiva e una di pensiero. Quel che ho constatato invece è stato il contrario, un desiderio di rendere ancora più spiccata una certa autorialità, superando quel confine in cui non è più chiaro dove finisce l’opera dello scrittore e comincia quella dell’editor. Se c’è una domanda seria da sollevare, sta tutta in quel confine.