La paura non è una scelta personale, ma una risposta poco governabile e naturale. Per questo tenerla a bada, soprattutto quando è collettiva e manovrata, risulta ancora più difficile. Ma un rimedio esiste
«Bisogna reagire a una
cultura della paura che, seppur in taluni casi comprensibile, non può mai tramutarsi in xenofobia o addirittura evocare discorsi sulla razza che pensavamo fossero sepolti definitivamente». Così parlò, il 22 gennaio scorso, il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, nella prolusione al Consiglio permanente Cei. Si riferiva ovviamente alla supposta “paura” degli italiani dinanzi al flusso di immigrazione che si riversa da anni sul paese. «Avere dubbi e timori non è un peccato», ha precisato a mo’ di conforto riprendendo le parole del Papa, «il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte».
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Ma si può davvero cancellare la paura, e in particolare la paura collettiva, dalla lista delle grandi emozioni umane? È possibile raggiungere la “libertà dalla paura” di cui parlava Franklin D. Roosevelt nel suo famoso discorso del 1941? E poi: la paura può essere considerata un peccato? In questo caso, la storia pullulerebbe di peccatori, individuali e collettivi, dato che nel suo corso sono registrati non pochi momenti di Grandi Paure collettive, di solito originate da notizie false (le fake news non sono un’invenzione dell’era digitale). La più famosa fu forse quella che si scatenò nelle campagne francesi poco dopo la Rivoluzione del 1789: la falsa notizia di un’invasione di bande di briganti stranieri che venivano a distruggere i raccolti e uccidere i contadini per vendicare la nobiltà danneggiata dalle rivolte agrarie. Ci fu chi si rivolse al signore in cerca di aiuto. Altri usarono i forconi e le falci proprio contro di lui facendogli pagare con la vita i suoi privilegi.
Felix culpa, però, si direbbe: per tagliare corto coi disordini l’Assemblea Nazionale decise di eliminare i privilegi feudali, le disparità fiscali e la vendita delle cariche, determinando così la fine dell’Ancien Régime. Non sempre però la conclusione è così benigna. In due occasioni (verso la fine degli anni Dieci e ai primi degli anni Cinquanta) nel mondo politico e tra il popolo degli Stati Uniti corse quella che qualcuno chiamò Paura Rossa, creata dal diffondersi della convinzione che un gruppo comunista clandestino volesse infiltrare il governo e impadronirsi del potere. In quel caso la conseguenza fu una spietata caccia alle streghe e l’epoca del maccartismo. Un volume introvabile, che raccoglie un impressionante catalogo di paure collettive dal medioevo alla modernità (a cura di Laura Guidi e altre, Storia e paure. Immaginario collettivo, riti e rappresentazione della paura in età moderna, 1992), mostra quanto è frequente il formarsi di Grandi Paure.
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Anche gli etologi e i neuroscienziati, però, mostrano che
la paura non è una scelta personale, ma una risposta naturale e poco governabile. In “L’errore di Cartesio”, Antonio R. Damasio la colloca tra le cinque «emozioni universali» (insieme a felicità, tristezza, ira e repulsione). L’etologia la definisce più precisamente come lo stato «psicologico, fisiologico e comportamentale indotto negli animali e negli umani da una minaccia, attuale o potenziale, al proprio benessere o alla propria sopravvivenza». E vi intravvede una funzione positiva: predisporre a fronteggiare situazioni critiche. Ora, la situazione critica perché la paura si scateni è proprio l’incontro con chi non è come noi, con l’altro, con lo straniero.
Alla paura dinanzi al diverso e allo sconosciuto l’animale risponde, secondo gli etologi, con una strategia attiva o una passiva. Alla prima, battezzata fight-or-flight «combatti o scappa», si ricorre quando la minaccia è ancora evitabile. La strategia passiva invece consiste nel freezing (nel mondo umano, dovrebbe corrispondere alla timidezza), cioè il restare immobili e acquiescenti, e si attiva quando alla minaccia non ci si può più sottrarre. La scelta tra l’una e l’altra dipende dalla valutazione del momento: se ha a che fare con un predatore, l’animale attiva il freezing quando il pericolo è ancora lontano; se invece si supera una distanza considerata di sicurezza, attiva una risposta di fuga.
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La risposta degli umani alla paura non sembra troppo dissimile. Verso i sei mesi il bambino comincia a distinguere le persone familiari dagli estranei e reagisce in modo differenziato a chi appartenga al primo o al secondo gruppo: con simpatia verso i primi, con avversione e evitamento verso i secondi. Se ha a che fare con estranei, cerca una persona nota che si interponga e lo rassicuri. Come diffida degli estranei, il bambino, soprattutto quando è in gruppo, tende a stigmatizzare e isolare gli outsider e i diversi, usando varie procedure, principalmente il dileggio e il bullismo. A suscitare reazioni di questo tipo non è solo chi appartiene a un gruppo dotato di diversità vistose (per es., aver la pelle di un altro colore o seguire pratiche e rituali urtanti per i locali): basta esser troppo grasso o troppo magro, balbuziente, troppo alto o troppo basso, molto bravo a scuola o molto somaro. In altre parole, il gruppo fissa arbitrariamente dei criteri standard di normalità e qualunque differenza vistosa rispetto a quei criteri funziona come trigger per indurlo a rifiutare, anche in modo violento. In questa risposta il grande Irenäus Eibl-Eibesfeldt vede, bontà sua, un’«aggressione educativa», perché serve a spingere il “diverso” ad adeguarsi alla norma del gruppo, in modo che tutto torni normale.
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Considerazioni come queste suggeriscono che
non è tanto facile tenere a bada la paura, meno ancora quando è collettiva e magari manovrata da qualche
meneur de foules (come li chiamava Gustave Le Bon nel suo Psicologia delle folle 1895), cioè da qualche mestatore che la sfrutta ai suoi fini. Ma contengono un suggerimento ulteriore, anche se fastidioso a prima vista: la paura dello straniero, dello xenos, è diversa dal razzismo. Il razzismo è una costruzione culturale derivante da ideologie e convinzioni deliranti.
La paura dello straniero (esito a usare il termine xenofobia) è invece una risposta naturale dinanzi a qualcuno che non ci somiglia e di cui non capiamo le intenzioni. Se le teorie politiche incorporassero qualche elemento di etologia umana e tenessero conto delle emozioni di cui siamo portatori e spesso preda, riuscirebbero forse a spiegare come mai (vedi il Rapporto Eurispes 2018) solo il 28,9 per cento degli italiani sappia indicare la reale incidenza degli stranieri sulla popolazione (in realtà dell’8 per cento). Per il 35 per cento la quota sarebbe esattamente il doppio e per il 25 per cento addirittura un residente in Italia su quattro sarebbe non italiano. La paura agisce come un allucinogeno: ingigantisce e deforma i fenomeni.
Che cosa può sciogliere il nodo? La fede, come suggeriscono Bergoglio e il presidente Cei? Oppure, più efficacemente, la cultura? Difficilmente una paura collettiva fa presa su chi si informa, interroga i fenomeni, li valuta nel loro giusto peso. Questa lista di pratiche virtuose (me ne rendo conto scrivendola) è però visibilmente patetica in un’epoca in cui i lettori di giornali diminuiscono a vista d’occhio e una politica urlata e mendace induce a tutt’altro.