In carcere per un disegno. Ora la pittrice curda dipinge col sangue
Zehra Dogan è una giovane artista reclusa in una prigione turca. La sua colpa? Un dipinto contro violenza e soprusi. Ora le hanno tolto pennarelli e ogni altro strumento. Ma lei non smette. E usa cibo, bevande e sangue mestruale per raccontare su fogli l’angoscia dei curdi
Dietro le alte mura di una prigione turca, dentro una soffocante cella con 40 persone ammassate, una minuta ragazza riesce a trovare lo spazio fisico e mentale per dipingere. La ventottenne Zehra Dogan, pittrice-giornalista e attivista per i diritti delle donne curde, non lo fa con gli strumenti canonici. Deve usare i lunghi capelli, le dita sottili e il proprio sangue per dipingere il terrore della popolazione curda di fronte alle devastazioni dell’artiglieria. Armi pesanti, usate a tappeto negli ultimi tre anni dall’esercito turco nella vasta zona sud orientale della Mezzaluna, più nota come Kurdistan turco, contro il Partito dei lavoratori curdo (il Pkk fondato da Ocalan). A soffrire e morire soprattutto i civili, intrappolati nelle città assediate dai carriarmati e zeppe di cecchini.
Da quando, nel giugno scorso, la Corte d’Appello l’ha condannata a quasi tre anni di detenzione nella prigione di Diyarbakir - dopo aver passato già 6 mesi in carcerazione preventiva- a Zehra è stato proibito l’uso di pennelli e colori, oltre al computer e alla macchina fotografica. Le “armi” con le quali da anni questa donna turca di etnia curda sta tentando, assieme ad altri intellettuali e giornalisti turchi tra i quali il compagno Onur Erdem, di contrastare la deriva autoritaria del presidente Recep Tayyip Erdogan. Oggi la Turchia è la nazione del pianeta con più giornalisti in carcere.
La sentenza contro Zehra però è unica per accanimento e mostra un ulteriore livello di ritorsione perpetrato da uno Stato contro un proprio cittadino. È stato l’artista inglese Banksy a rendere nota la sua storia all’opinione pubblica attraverso uno dei suoi provocatori murales. Fino ad allora era rimasta sconosciuta. Il suo arresto e la sua detenzione si sono però configurati fin dall’inizio come una violazione dei diritti umani inedita e scandalosa. Nella storia contemporanea, infatti, non era mai successo che una persona venisse privata della libertà personale per aver realizzato un solo dipinto: quello in cui raffigura le rosse bandiere turche che sventolano sulle macerie di Nusaybin, città a maggioranza curda. Secondo i fedelissimi del “Sultano”, il dipinto avrebbe messo in pericolo alcune operazioni militari. Non solo: il magistrato ha aggiunto che da questo si deduce che Dogan è una sostenitrice del Partito del Pkk. Non un membro, una terrorista, come aveva sentenziato il giudice di primo grado.
Ma l’alleggerimento della pena non ha smosso i responsabili del penitenziario dove è rinchiusa da 12 mesi, anzi: a Diyarbakir (tra l’altro la sua città natale), non le è permesso introdurre né libri né pastelli. Restrizione aggirata da Zehra grazie alla sua forza d’animo e creatività. Attraverso le bevande, il cibo e il proprio sangue mestruale è riuscita a ricavare colori per raccontare su fogli l’angoscia dei curdi.
Se non le fosse impedito dall’autorità carceraria continuerebbe anche a scrivere articoli, come faceva per l’agenzia Jihna, chiusa con il suo arresto. Avevo conosciuto Zehra e Onur nel 2013, durante la rivolta di Gezi Park, quando 4 milioni di persone scesero per le strade per protestare contro la politica fascio islamista del Sultano. Lavorava e viveva tra le sedi di Istanbul e di Diyarbakir dell’agenzia, portale di informazione da lei fondato, scritto da donne per le donne curde.
Quando venne arrestata, la prima volta nel 2016, si trovava in un locale da thè nella periferia di Nusaybin. «In pieno giorno: il motivo dell’arresto non poteva essere la violazione del coprifuoco in vigore, ma non le era passato lontanamente per la testa che il reato fosse stato l’aver copiato con carboncino e matite colorate una foto della distruzione della città curda vista su Internet», spiega Erdem da Londra, dove è stato costretto a trasferirsi dopo la chiusura del giornale per cui lavorava e a una denuncia per diffamazione nei confronti dello Stato, leggasi Erdogan. I poliziotti arrivarono alcune settimane dopo che lei aveva diffuso sui social network la riproduzione. Le nuove opere frutto delle deprivazioni a cui è sottoposta sono visibili solo grazie alle foto che il compagno ha realizzato durante le visite trimestrali. «L’ultima volta, dopo l’iniziativa di Banksy, Zehra e le altre detenute per ragioni politiche erano rincuorate. Pochi giorni prima una di loro si era suicidata. Zehra è coraggiosa e combattiva, ma le condizioni di vita sono davvero difficili».
Le è permesso telefonare una volta alla settimana per pochi minuti e ricevere visite una volta al mese da parte di familiari stretti. Che Zehra Dogan sia difficile da piegare si comprende anche dalla nota scritta in attesa del secondo verdetto: «Voglio ripetere l’insegnamento di Picasso: “Pensi davvero che un pittore sia semplicemente una persona che usa il suo pennello per dipingere insetti e fiori?”. Nessun artista volta le spalle alla società; un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. Nemmeno i nazisti perseguirono Picasso per i suoi dipinti: io invece sono a giudizio a causa delle mie opere». Zehra dovrà stare in carcere fino a marzo 2019.