Si chiude la riflessione iniziata su L’Espresso: dove sono gli scrittori italiani? “Si esalta lo scrittore rivelazione. Ma gli scrittori non devono rivelarsi. Semmai devono rivelare. Cioè devono dirci cose che noi altrimenti non vediamo”. E invece troppo spesso sono malati di narcisismo

Sono consapevole che il pensarsi narratori porta a pagare un prezzo molto alto in termini emotivi. Credo che valga per tutti, anche per i troppi, sempre di più purtroppo, che trovano nell’idea di scrivere un romanzo una risposta alle proprie ambizioni e al consolidamento della propria identità. Scrivere è ormai sempre più una faccenda personale, una scommessa tra sé e il mondo, una sfida tra sé e il mercato dei lettori, persino tra sé e gli editori, e gli amici, e i familiari. Scrivere è questo, è una questione privata, parafrasando Fenoglio, che diventa pubblica solo per alimentare narcisismo.

Sono rassegnato: appena apri una discussione letteraria, e cerchi di capire delle cose, gli scrittori ti rispondono: “Io”, con la i maiuscola. Perché la faccenda è tutt’altra. Non ho citato Daumal a caso (l’alto il basso, la base e la cima della montagna) non ho chiamato in causa Solmi per mostrarmi sofisticato. Non entro nel complottismo letterario, che è sempre complottismo, solo in minore: sempre gli stessi, il potere di pochi, le cricche che vincono, che scrivono sui giornali, che pubblicano con editori importanti e che sbarrano la strada ai meritevoli. Può anche essere accaduto, può accadere, ma resta complottismo. E oggi, con la quantità di case editrici che esistono, e con il numero dei libri che si pubblicano ogni anno c’è spazio per tutti. E a tutti è data una possibilità.

 

Idee
Cos’è il romanzo? Tra attacco e difesa, la polemica non si spegne
12/10/2021

Non parlo neppure degli alti e bassi, di quelli che sarebbero Dante Alighieri ma il destino li ha lasciati ai margini. Se non altro perché anche Dante stesso pagò nei secoli i momenti bui. E se li ha conosciuti lui, possiamo stare tutti tranquilli.


Dico un’altra cosa. C’è un problema di narratività. Non un problema letterario in generale. La poesia non ha mai goduto di buonissima salute, ma è sempre di alto livello e fa le cose che deve fare. Non solo Merini, che continua ad avere successo di mercato, l’elenco sarebbe lungo: Patrizia Cavalli, Chandra Candiani, Valerio Magrelli, Bianca Maria Frabotta, Mariangela Gualtieri, e potrei continuare. Il punto è: “il romanzo”, questo genere che esiste relativamente da poco, e che ha documentato, raccontato, il secolo della borghesia e poi il secolo breve, cosa è oggi se non un setting analitico a cielo aperto dove tutti mettono narcisismi, frustrazioni e ambizioni, guardandosi soltanto allo specchio?

 

La polemica
«In Italia ci sono pochi scrittori e troppi impiegati in carriera che vogliono solo un premio»
22/9/2021

Con che lingua si racconta? Attraverso quale italiano si leggono i best seller internazionali, che ormai occupano la gran parte dei banchi delle librerie? Su quale lingua letteraria stiamo esercitando le nuove generazioni? Quella dei traduttori. Che non è quasi mai una lingua letteraria, ma quando va bene soltanto l’adattamento di una lingua letteraria altrui. La seconda metà del Novecento non ha forse sovrapposto la narratività cinematografica a quella letteraria, con una efficacia e un riconoscimento più vasto? Certo. Ha finito poi per mettere in secondo piano il racconto come lingua, innanzi tutto, lasciando che si imponessero strutture narrative che si direbbero efficaci e avvincenti. Molti giallisti, di gialli sempre più ingialliti, non sono altro che questo. E anche gli autori di saghe obbediscono a questa logica. Ed è pensabile – con il rispetto per le scuole di scrittura – che si possa insegnare la propria lingua, la propria tonalità di racconto? No, non è pensabile. E allora le famose regolette, che regolette restano, diventano il pane quotidiano dei docenti di scrittura, che sono, quando va bene, docenti di storie buone per le serie, o per i film.

 

La polemica
«Arbitri parziali nel derby tra scrittori»
12/10/2021

Il delta di questo fiume in piena è il mercato, è il successo, è la riconoscibilità dello scrittore come autore, l’autorialità come condizione indispensabile di una identità frammentata e confusa. È a questo che si aggrappano i festival, i saloni, dove la letteratura diventa spettacolo. Per cui quando vince il Nobel uno scrittore della Tanzania, Abdulrazak Gurnah, naturalizzato inglese, la prima domanda non è: cosa avrà scritto? Bensì: chi lo ha mai visto? O meglio: chi lo conosce? Non i suoi testi, ma lui.

 

La polemica
«Basta con questa storia per cui i romanzi italiani sono tutti uguali. Il mio lavoro dimostra che non è vero»
30/8/2021

Una volta Alberto Arbasino mi ha detto: «Ma questa fissazione delle classifiche dei libri, secondo te, no? Che senso hanno? Tu la faresti la classifica dei migliori ristoranti per numero di coperti? Vincerebbe il motel Agip».


Ma la faccenda è ancora più complicata. Da un lato c’è tutto un chiacchiericcio sui grandi scrittori che ci hanno rappresentato: Gadda, Manganelli, Calvino, Bassani, Elsa Morante, Moravia, Sciascia, Eco, Arbasino, e si potrebbe continuare. E poi ti dicono che il libro ti deve togliere il fiato. Dimenticando che nessuno di questi ha mai pensato di volerci togliere il fiato. Ma gli agenti letterari - tanti bravi, consapevoli di fare un lavoro difficile – ti scrivono sempre le stesse frasi per promuovere il loro autore: le narrazioni serrate, il ritmo che non ti lascia via di uscita, lo scrittore che si rivela a te, che è la rivelazione dei prossimi anni.


Ma gli scrittori non devono rivelarsi: semmai devono rivelare. Cioè devono dirci cose che noi altrimenti non vediamo, e devono farlo con la lingua. Ma gli autori rivelano solo sé stessi, sé stessi come persone che operano e agiscono nel mondo. Non credo che il punto sia che mancano i critici e che le università si occupano ormai solo di comparatistica. Il punto è che abbiamo tradito la letteratura. L’abbiamo trasformata in un’ancella del cinema, abbiamo incoraggiato a scrivere in quel modo. Abbiamo srotolotato centinaia di red carpet lisi e goffi su cui far sfilare autori di libri modesti che non legge nessuno. Perché è l’oggetto libro a fare status, non il contenuto. Pubblicare un romanzo è uno step identitario. Un accessorio elegante che prima o poi nella vita devi indossare, come un cronografo prezioso, un abito elegante, un gioiello ricercato.

 

Tendenze
Il futuro del romanzo? Basta con le gabbie dei generi
17/8/2021

Siamo nell’epoca della retorica delle grandi storie, e in questo il giornalismo ha delle terribili responsabilità: ha inventato un genere letterario vero e proprio che ormai finisce in romanzi su romanzi con una lingua banale, una struttura sintattica priva di qualsiasi consapevolezza, attraverso uno scimmiottamento ostinato di autori americani soprattutto, sempre tradotti s’intende.


Però poi, quando si fanno discorsi letterari, allora è un citare continuo i nostri autori del passato che invece facevano tutt’altro. Quei grandi che citavo prima: gente sottile, discreta, lontana, consapevole che il testo è una cosa e l’autore un’altra. E fatemi aggiungere a quei grandi autori anche Roberto Calasso e Daniele Del Giudice, scomparsi proprio in questo periodo, due che il mestiere di mostrarsi non lo hanno mai praticato.


Qualcuno mi dice che io ho smesso di fare il critico perché a un certo punto mi sono messo a fare l’autore. Peccato che il mio primo libro sia del 1991, e il primo romanzo del 1995. Vorrei sapere dove collocare quel “certo momento”, ho sempre fatto tutte le cose assieme, per fortuna. E oggi anche fare l’editor significa esercitare una forma di critica, sottile, attenta: ne sanno qualcosa gli autori che lavorano con me, perché gli editori non sono i giudici di un talent dove ti arriva il libro ed è subito capolavoro. I libri si inventano, si pensano con gli autori, si seguono, si cambiano persino. I libri sono il risultato di consapevolezze, sono risposte a domande sulla contemporaneità, sono ricerca, innanzi tutto. Ma la critica ormai è impigrita in quella terra di mezzo dove c’è sempre qualcuno che prova a toglierti il fiato, dove il metro è il successo.


Si è fuori strada nel parlare continuamente e ossessivamente di sé stessi. La domanda è un’altra: aveva ragione Daumal, aveva ragione Solmi quando si augurava, a tempo debito una nuova letteratura? Oppure non è così? Stiamo morendo di narcisismo, che è la pandemia psicologica di questo tempo. E dobbiamo prenderne atto: è stato eroso uno spazio letterario, mangiato da altri mezzi nati per raccontare, e la letteratura deve ripensarsi in una forma diversa, in una forma ibrida dove l’autofiction, il saggio, e persino i versi poetici possono convivere.


Mi sorprende lo sviluppo di questa polemica. E mi sorprende perché la cristallizzazione del ruolo dell’autore, e aggiungerei anche la banalizzazione, genera meccanismi imitativi in tutti i nuovi aspiranti scrittori di questi anni. Si scrive come scrivono “quelli lì”: non i letterati che si sono studiati a scuola ma quelli che si ritrovano nelle pile delle librerie, nelle classifiche, nei luoghi del narcisismo autoriale, inclusi i social, dove a esserci c’è l’autore, che interviene, sfidando il ridicolo di continuo, sul proprio libro, che ringrazia il critico, che si commuove per i tanti che sono arrivati alla presentazione, e via dicendo.


Ma intanto i lettori sono sempre più in difficoltà su testi scritti anche solo vent’anni fa, perché scritti in un italiano che non è quello di oggi e di ora. Per cui semplificare è una necessità e aumenta sempre di più il numero degli analfabeti colti.


E che rapporto hanno queste cose con quello che vediamo in giro. Con una società indifesa che finisce nelle reti delle banalità complottiste, che non sa capire le parole, che ripete slogan sempre uguali. Quanti, nella mia generazione e in quelle prima, hanno imparato a orientarsi e a difendersi leggendo Moravia e Pasolini, Parise e Umberto Eco? Tantissimi. E quanti oggi?
Questa è l’unica domanda sensata che ci dobbiamo fare.