La scoperta dell’epica del quotidiano salva le “storie corte” dell’autrice di “Borgo Sud”

Ho letto “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” nel 2001, quando è uscito per Minimum fax, con il ragazzo dagli occhi sgranati su fondo arancio in copertina. Allora scrivevo per me racconti brevi e brevissimi, li raccoglievo in una cartella che ancora sta in chissà quale cassetto, il titolo calcato con la biro blu: “Necrologio con Ape”. Scrivevo soltanto per nascondere lì dentro il mobile, un po’ a disagio per i miei protagonisti senza nome che non avevano mai niente di eroico. Era gente comune: uno il proprietario dell’Ape, appunto, un altro così solo da partecipare ai funerali di sconosciuti per poter piangere, infine un cardiopatico in attesa di trapianto seguiva le cronache degli incidenti mortali nella speranza che si liberasse un cuore per lui. Tutti tipi allegri, insomma. Mi vergognavo di loro e di me che li inventavo.

Nonostante il malessere che le sue situazioni mi comunicavano, la notte in cui ho letto Carver per la prima volta è stata una notte di gioia: ma allora si poteva fare! Si poteva scrivere di poveracci così. Ero impressionata dai suoi personaggi, dal whisky di bassa qualità che bevevano, dalle loro azioni minime, prive di epica e gloria ma piene di senso. Ordinary people dalla quotidianità slabbrata, sempre diluita nell’alcol, come Holly e Duane che in “Gazebo” cadono in rovina insieme al motel di cui dovrebbero essere i custodi. Un fallimento a due raccontato in poche pagine, in poche semplici battute di dialogo. Ma forse anche una speranza, sospesa nell’ultima. O forse no, è aperto il finale.

Ciò che più mi è rimasto di quella prima lettura è la capacità dell’autore di rappresentare norma e follia come punti diversi ma non così distanti di un continuum, in Raymond Carver salute mentale e patologia sono sempre lì pronte a travasarsi l’una nell’altra. E mi è rimasta quella lingua quotidiana ed essenziale, un parlato denso che subito evoca mondi.

Da quella notte mi sono svegliata libera: potevo nel mio piccolo continuare a scrivere storie corte e cortissime, a occuparmi di anonimi antieroi presi nei lacci delle loro vite disadorne. Potevo inventarmi l’uomo che camminava un po’ troppo in mezzo alla strada, in modo da provocare delle strombazzate di clacson e sentire in quei precisi momenti che lui, proprio lui, diventava pericolosamente importante per qualcuno.