“Questo mondo non fa più per me”, diceva negli ultimi tempi. E continuava a scrivere, inventando altri mondi. Quegli universi che lo hanno reso uno dei romanzieri più grandi

Sia perdonato il tono personale, ma Abraham B. Yehoshua che si è spento poco prima che il sole sorgesse il 14 giugno, qualche volta, a chi veniva a casa sua per intervistarlo, regalava invece affetto e amicizia. Ecco, negli ultimi tempi, Buli, così lo chiamavano coloro che lui considerava amici, quando lo si cercava al telefono diceva immancabilmente: «Vuoi sapere qual è il mio desiderio? Te lo dico. Voglio morire. E la cosa che mi auguro è che sia una morte veloce e indolore». E anche un bellissimo documentario girato pochi mesi fa dal regista Yair Kedar – autore di una serie di film su scrittori e poeti israeliani e israeliane- racconta e testimonia questo: una lunga cerimonia di addio di uno dei più grandi romanzieri della seconda metà del Novecento e dei primi decenni del Terzo Milennio; una lunga cerimonia d’addio da questo mondo e dai lettori. Vi vediamo il protagonista a una serie di incontri pubblici dove tira le somme della sua vita e della sua produzione, per dire: non sono dispiaciuto per me, ma questo mondo non fa più per me.

 

C’è qualcosa di simbolico, forse una metafora (quando gli parlavo delle metafore che pensavo di scoprire e interpretare nei suoi romanzi lui diventava sospettoso ma pure divertito; qualche volta ammetteva: «Sì, hai indovinato», e si vedeva che dirlo gli costava un certo sforzo ma al contempo gli piaceva), c’è un segno dei tempi dunque, se la scomparsa di Yehoshua coincide con la fine di un mondo come l’abbiamo conosciuto dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale e la ricostruzione dell’Occidente, Israele compreso. E lui, da tenero narratore, da sismografo sensibile dell’universo che abitava, avvertiva questa strana (uno scrittore geniale, ebreo polacco, Bruno Schulz morto ammazzato nel ghetto di Drohobycz, avrebbe detto “mostruosa”) coincidenza. E forse più che dispiaciuto di questa coincidenza, appunto, ne era incuriosito.

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Negli ultimi tempi, a partire dalla pandemia, ma forse da poco prima, le conversazioni cominciavano con la confessione di vivere un lutto, oltre che di essere malato. Certo, per la moglie Rivka, che lui chiamava Ika, e che era l’amore della sua vita. Un giorno mi disse (al presente, Ika era ancora in vita): «Lei da psicanalista sostiene che io scrivo romanzi per avere il controllo assoluto della situazione». In altre parole: la moglie gli spiegò il suo desiderio di essere una specie di deus ex machina, un dio che governa le vite altrui, sebbene immaginarie. Succede a tanti scrittori ma pochi sono capaci di prenderne coscienza e di confessarlo con serenità. E allora, c’era il dolore per la scomparsa di Ika nel 2016 (sublimato nel romanzo “Il tunnel”, a mio avviso metafora del rapporto fra loro due). E poi continuava: «Mi manca Amos». Amos, era ovviamente Amos Oz, scomparso nel dicembre 2018. C’è stato un miracolo in Terra Santa. I tre grandi scrittori: Yehoshua, Oz e David Grossman non solo non sono (non sono stati, bisognerebbe dirlo) rivali ma anzi sono stati legati da rapporti di amicizia, altruismo, solidarietà. E allora, una volta a settimana Oz faceva una lunga passeggiata con Yehoshua e di cosa parlassero possiamo solo fare supposizioni. L’elenco continuava con Yirimiahu Yovel, un filosofo importante, grande esperto di Baruch Spinoza, eretico espulso e maledetto dalla comunità ebraica di Amsterdam e senza cui il pensiero moderno non esisterebbe, e forse il pensiero di Yehoshua non sarebbe stato lo stesso.

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E possiamo continuare con Yehoshua Kenaz, romanziere sublime ma fermiamoci qui. Fermiamoci, perché dopo quell’elenco Buli spiegava quanto la pandemia ponesse la questione del nostro rapporto con le tecnologie e con il futuro (non entrava nei dettagli, li dava per scontati); seguivano considerazioni sulla mancanza di una solida prospettiva di pace con i palestinesi, della deriva a destra della società israeliana e sulla guerra in Ucraina. Un giorno gli chiesi: ma stai scrivendo? Lui alzò la voce: «Ma che ti importa se io scriva? Ho scritto abbastanza nella vita, posso anche smettere». Seguì un lungo silenzio e poi: «Sì, sto scrivendo. Ciao». E allora, in mezzo alla fine di un mondo, lui ha continuato a immaginare un altro mondo. In fondo, diceva, questo era il compito dello scrittore: immaginare altri mondi. E ci ha regalato un breve romanzo, «una novella» precisava, “La figlia unica”, ambientato in Italia e diceva di essere contento che da quel testo verrà tratta una serie tv. E poi ha lavorato a un altro testo: “Il terzo tempio”.

 

Ora che se n’è andato e non si può più dirgli: guarda che qui abbiamo bisogno di te, per avere in cambio il regalo di un suo sorriso, restano - oltre all’affetto - alcuni ricordi fondamentali. Per esempio, questo, di una conversazione: «C’è qualcosa di terribile riguardante Auschwitz. I tedeschi hanno detto agli ebrei: voi dite che siete un popolo senza patria? Allora vi portiamo ad Auschwitz, perché quel luogo è una non patria, un luogo che non è luogo».

 

Ecco, Yehoshua era ossessionato dalla questione dell’identità ebraica e israeliana. E lodava la normalità. La normalità degli ebrei significava territorio, sovranità, lingua ebraica. Per lui, l’alternativa alla patria era davvero la morte. Questo mi disse, una volta, ma poi l’ha ripetuto più volte, dopo una sua visita ad Auschwitz.

Tuttavia, la Terra d’Israele era anche la patria di un altro popolo, dei palestinesi. Su come arrivare a un accordo di pace ha cambiato più volte idea. Ma era capace di dirlo, di ammetterlo con onestà: «Sì, ho cambiato idea». Negli ultimi anni non credeva più nella formula dell’amico Oz di due Stati per due popoli, di un divorzio consensuale, insomma; pensava invece a una specie di Stato binazionale, un’utopia, dettata paradossalmente dal senso di realismo (non è possibile smantellare le colonie ebraiche in Cisgiordania). E ancora: laico, si lamentava dell’eccessivo ruolo della religione nella vita dello Stato, auspicava una definizione dell’identità ebraica che separasse l’appartenenza alla nazione da quella alla fede. E, soprattutto, era nemico della nostalgia: parlava di eccesso di memoria, criticava lo sguardo rivolto all’indietro, verso le presunte glorie della vita ebraica negli shtetl della Polonia e Ucraina o dei quartieri ebraici in Marocco, e del culto dei rabbini taumaturghi. Amava sottolineare di essere «la quinta generazione di ebrei nati a Gerusalemme», andava fiero di suo padre Yaakov esponente della comunità sefardita della città, con tenerezza parlava della madre Malka Rosilio, nata in Marocco in una famiglia importante, e che mai ha imparato bene la lingua, l’ebraico, di cui suo figlio era maestro assoluto. Soprattutto, rimangono i suoi libri, i mondi che inventava e reinventava, l’attenzione - degna di un Balzac e di un Manzoni - al dettaglio, la capacità, simile a quella di Camus, di raccontare la luce del Mediterraneo. Quinta generazione a Gerusalemme, Yehoshua era un uomo del Mediterraneo, appunto. E l’Italia la considerava una seconda patria. Ma questa è un’altra storia.