L’impronta dell’uomo sulla Terra è sempre più pesante. E il senso dell’apocalisse spazza via l’idea di futuro. Dalla pietas di Ortese ai dubbi di Franzen, la letteratura diventa ecologista

«Ogni giorno, invece di pensare alla colazione, dovranno pensare alla morte»: è il consiglio terrorizzante che lo scrittore statunitense Jonathan Franzen dà agli esseri umani che stanno vivendo nell’epoca denominata Antropocene: termine reso popolare dal Nobel della chimica Paul Crutzen e tuttora bisognoso di chiarificazioni e chiose. I più sono d’accordo nel far iniziare l’epoca designata da metà Novecento. L’etimologia non aiuta granché: derivato da “ανθρωπος” (uomo) e “καινός” (nuovo, recente, inventato da poco) sostituisce Olocene. Autorevoli scienziati in ufficiali consessi hanno teorizzato che gli interventi sul pianeta, a partire dalle esplosioni atomiche (oltre 2.400 dal 1945!) e dagli eccessi di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, si son fatti talmente aggressivi da provocare gigantesche trasformazioni globali e strutturali nell’ambiente, nella biodiversità, nel clima e di riflesso in ogni ambito delle nostre consuetudini.

Senza esserne pienamente consapevoli, stiamo varcando una soglia che induce a timori talvolta dalla tinte apocalittiche. Il riscaldamento globale e l’innalzamento del livello dei mari non sono punizioni incomprensibili. Il paradosso è che la parola in sé, Antropocene, significa dominio dell’uomo: il che, secondo l’orgogliosa ottica dell’umanesimo europeo, dovrebbe suscitare soddisfazione e orgoglio. Ma il dominio è venato di qualcosa di faustiano: si è puntato a eliminare fastidiosi ostacoli e a diffondere goffo benessere ignorando limiti e misure, talvolta armati di un protervo e rapace colonialismo.

 

La religione del progresso ha affascinato e accecato. La mitizzata natura è stata offesa e “snaturata” irreversibilmente. Si fa un gran parlare di ecologia e di sostenibilità quando forse è già tardi. Camminiamo in una geologia fragile e minacciosa e non siamo in grado di dare nomi precisi ai responsabili delle sciagure che ci angosciano. La narrazione che ha prevalso ha offuscato le menti e indotto euforia. Innegabili conquiste mediche sono accompagnate da un uso delle tecnologie che oltrepassa l’umano. L’ambivalenza è la regola.

 

Niccolò Scaffai, ordinario di Critica letteraria e letterature comparate all’Ateneo senese, ha avuto una brillante e coraggiosa idea: ha curato con rigore selettivo per Einaudi un’antologia di venti racconti e saggi su queste scottanti tematiche: “Racconti del pianeta Terra”. «Per quanto Antropocene sia diventato un vocabolo alla moda, i cambiamenti che evoca non sono soltanto quelli visibili negli ultimi decenni: non esisteva ancora la parola per definirle, ma le trasformazioni erano già in atto», scrive nell’introduzione. Già. I concetti arrivano sempre dopo e stimolano discettazioni interminabili, anche se si basano su parametri scientifici. Perché l’intelligenza umana è da sempre intervenuta per modellare la natura e sottometterla alle sue esigenze, allontanandosi via via dalla sua benefica paradisiaca fecondità. Immaginata, però, non effettiva e più preoccupata di esistere, di dare alle persone vitalità e speranze che non di garantire una felicità infinita.

 

Il viaggio inizia con pagine che preannunciano eccitanti sviluppi e radiosi approdi, smentiti, ahimè, dalla ragione. E la scelta di apertura non poteva non cadere su Giacomo Leopardi, che nel “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo” (1824) rappresenta un pianeta dove «gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta». Allegoria sarcastica dell’anti-antropocentrismo di marca galileiana: perfetto rovesciamento, dunque, di superbe e sproporzionate ambizioni create dal desiderio egoistico di padronanza all’origine di conflitti permanenti e di egoismi irrefrenabili.

 

Herbert George Wells (“L’impero delle formiche”) compatisce quanti «erano emersi dalla barbarie e progrediti a un livello di civiltà che li faceva sentire padroni della terra e signori del futuro» a confronto delle industriose formiche. Anna Maria Ortese in un tenero sguardo di femminile pietas eleva gli animali a Piccole Meravigliose Persone e invita a non isolarle, a non considerarle strumenti: «Perché comincia da qui il Non-Uomo, l’atroce Inumano che da gran tempo ci tormenta», scrive. La comune animalità deve associare, non separare. Di John Maxwell Coetze Scaffai inserisce “Mattatoio di vetro”: migliaia di pulcini di un allevamento industriale hanno un destino non dissimile dagli individui che li sacrificano.

 

Domando all’appassionato curatore fino a che punto ritiene che le letterature siano atte a sostenerci in una critica visione di un fenomeno così vario e composto da tanti elementi: «La letteratura ha avuto e continua ad avere un ruolo cruciale», risponde: «Nei secoli la configurazione dell’idea di ambiente e la struttura della relazione tra umano e naturale si sono formate specialmente attraverso i testi letterari, nella modernità il tema acquista una fisionomia che tende a precisarsi ulteriormente per l’urgenza delle questioni ambientali in età contemporanea ed in questa relazione la letteratura può esprimere la sua natura, come sapere e come modalità di conoscenza». L’ecologia non ti pare infarcita di slogan propagandistici?: «Occorre superare il pregiudizio che quello dell’ecologia sia un repertorio di valori irenici che si esplicano in racconti a tema green: si tratta piuttosto di un campo conoscitivo, oltre che di una categoria culturale decisiva, un campo che permette di cogliere le relazioni, non solo naturali, ma anche sociali e storiche, tra persone, gruppi e ambienti». Non s’incorre nel trabocchetto di un uso pedagogico e contenutistico delle opere? «No, se si tiene conto che i collegamenti tra letteratura e ecologia consistono in uno scambio, in una reciproca influenza. L’intento non è quello di trasferire in modo meccanico princìpi, procedimenti o valori da un terreno all’altro, dall’ecologia alla letteratura o viceversa, lo scopo è mostrare come tra quei campi si sia instaurata ed evoluta nel tempo una relazione nei due sensi. Il discorso ecologico ha adottato costruzioni narrative tipicamente letterarie, restituendole poi in connotati caratteristici del romanzo a tema ambientale, e coinvolge in una trama complessa elementi e agenti di natura diversa, persone e fenomeni. L’intreccio tende così a imitare l’interazione tra i molteplici fattori che incidono sul clima: anche l’opera letteraria è, in questo senso, un ambiente. Dall’altro lato, la letteratura ha trovato nell’ecologia sia argomenti originali, sia elementi per rinnovare temi classici come quello della fine del mondo». Il racconto della crisi del pianeta deve superare due ostacoli. Il primo è il pregiudizio che ne sminuisce il ruolo confinandolo entro i recinti dei sottogeneri, che sono spesso a loro volta costruzioni artificiali: è un sottogenere la fantascienza, cui si sono dedicati autori e autrici maggiori del canone moderno e contemporaneo? Evidentemente no. Il secondo ostacolo è la difficoltà di costruire quel narrare in chiave di una “buona storia”.

 

Tra gli obiettivi dei “Racconti del pianeta Terra” spicca quello di affrontare questi ostacoli attraverso una scelta di scritti correlati: racconti in prevalenza contemporanei, ma preceduti da esempi della tradizione moderna, testi che esprimono la capacità dei loro autori di leggere la realtà cogliendo i nessi tra esperienze e fenomeni, e di rompere gli schemi narrativi abitudinari. Non per caso son convocati tra gli altri pure Primo Levi, Mario Rigoni Stern, l’antropologo indiano Amitav Gosh, la poetessa canadese Margaret Eleanor Atwood. Il risultato è un romanzo in forma di racconti, che si chiude con approfondimenti saggistici immalinconiti dal senso della fine. «Il romanzo moderno, a differenza della geologia, non ha mai affrontato la centralità dell’improbabile», scrive Gosh. Atwood attenua il pessimismo dei più e fa notare che la necessità di agire presto e tutti insieme si va sempre più estendendo.

 

L’ultima parola spetta a Franzen. Non esita a riconoscere che siamo davanti a un bivio: o l’accettazione dei disastri prossimi venturi con sentimenti apocalittici o il ripensamento della parola “speranza”. A chi gli obietta: «Sperare in che?» replica che già la speranza, in quanto immotivata disposizione dell’animo, contribuisce a darci energia in questa epoca di transizione. Verso cosa? Verso dove?