Buio in sala

The Holdovers (in Italia Lezioni di vita) è uno dei più bei film statunitensi visti di recente

di Fabio Ferzetti   25 gennaio 2024

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Candidata a 5 premi Oscar, tra cui miglior film protagonista e sceneggiatura, la pellicola di Giamatti e Payne non perde un colpo

La scuola è magnifica, i ragazzi viziati, il professore (Paul Giamatti) un misantropo strabico o forse guercio che sibila insulti mentre corregge i temi di quei rampolli upper class e li carica di compiti anche per le vacanze. Senza sapere che dopo quel Natale 1970 nulla sarà come prima. Né per lui, né per l'unico studente rimasto a passare le feste in quel pomposo istituto del New England (Dominic Sessa, esordiente rivelazione), né per la corpulenta cuoca che unisce alle loro solitudini la sua (Da'Vine Joy Randolph). In un percorso di progressivo avvicinamento e reciproco arricchimento.

 

Riassunto così “The Holdovers”, titolo originale di “Lezioni di vita”, può sembrare un concentrato di cliché. Invece è uno dei più bei film Usa visti di recente, un omaggio grondante affetto alla New Hollywood anni 70, con un occhio di riguardo per Hal Ashby e “L'ultima corvée”, di cui riprende la struttura. Nonché un esempio raro di sguardo adulto in un cinema sempre più formattato e infantilizzato.

 

Chi ricorda “Sideways” sa che l'accoppiata Giamatti/Payne fa scintille. Nessuno meglio di questo regista di origini greche, classe 1961, sa infatti unire il riso e la commozione, il comico e il triviale, l'infimo e l'epocale. Non a caso l'autore di “Nebraska”, “A proposito di Schmidt” e “Paradiso amaro” è tra i pochissimi cui è concesso il final cut, ovvero il controllo sul montaggio. E anche “The Holdovers”, col suo taglio classico e il suo impagabile gusto dei dettagli, non perde un colpo. 

 

Anche perché Payne, sorretto dall'oliatissima sceneggiatura di David Hemingson (al primo film dopo 30 anni di serie tv), scopre le carte poco alla volta. Dando alle miserie, alle bellezze, alle goffaggini e ai segreti dei suoi protagonisti una luce di verità in ogni occasione, anche minima: come facevano i suoi predecessori anni 70 con i loro personaggi. Piccoli grandi uomini, come il protagonista del film di Arthur Penn che Giamatti e Sessa vanno a vedere in una scena decisiva. Il mix inconfondibile di affetto e crudeltà in cui consisteva il “Payne touch” si è forse addolcito col tempo. Ma non è detto sia un male.