Dialoghi

Valerio Lundini: «Non c'è niente di più surreale della realtà»

di Beatrice Dondi   23 aprile 2024

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Incontro inedito con il "giovane comico". Tra censura («Il trucco è dire le cose senza annunciarle»), etica («Se dici certe cose non sei scorretto, magari sei solo razzista» e progetti («Ebbene sì, sto scrivendo il mio primo film»). Con un filo conduttore: l'11 settembre

Quando lo vedi in televisione la cosa che ti spiazza di più è come faccia a non ridere mentre dice quel che dice, con quella faccia un po’ così e quell’aria di chi è stato buttato in quel momento in quel determinato posto assolutamente per caso. Invece poi quando arriva in carne (poca) e ossa, la cosa che spiazza di più è che Valerio Lundini in arte sé stesso quell’aria stralunata tinta di semplice follia la indossa come fosse una felpa di primo mattino. Romano romano, non ha mai lasciato l’Appio Latino, neppure per uno straccio di Erasmus, sembra più giovane dei suoi trentotto anni perché mostra quella strana emozione chiamata stupore che lo fa divagare spesso, anche sulle piccole cose, come l’ordinazione al bar: «Non mi ricordavo che l’orzo fosse così cattivo, d’altronde è questo il grande sbaglio di Dio: ha fatto tutto abbastanza perfetto e poi ha reso schifoso il cibo che fa bene». Quando Lundini rilascia interviste (poche a dire il vero) la sensazione che le risposte siano frutto di un generatore automatico sorge spontaneo. Ma un tentativo, come si dice, non si nega a nessuno.

 

«Dai, parliamo di me, si comincia. Sono cresciuto tardi, non sapevo cosa fosse il mondo degli adulti per questo ho preso una facoltà generica come Legge perché qualunque altra scelta più mirata mi avrebbe incastrato in qualcosa di predefinito. D’altronde la mia generazione è così, fino a un certo punto eravamo bambini e poi abbiamo provato a procrastinare la fine dell’adolescenza. Perlomeno io ci ho provato laureandomi da vecchio».

 

I ragazzi, gli adulti, relazioni complicate, come le faccende del suo programma televisivo che dopo una prova sul campo dello streaming ora si appoggia nel preserale di Rai Tre. Ma dalle dinamiche di questi rapporti è difficile individuare colpe o perlomeno responsabilità. «Le colpe sono degli individui. Quando non sai che fare dovresti avere il coraggio di dirtelo senza perdere cinque lunghi anni a far finta di studiare anche perché quello che so l’ho imparato fuori. E che ho imparato fuori? Ah beh, poco». Però occhio, che le sue parole possano avere un peso caro Lundini, visto che si porta sulle spalle la pesantissima definizione di giovane comico. «Ma se io sono il giovane comico, Damiano dei Maneskin che è? Un neonato?». Sì, vero, ma cosa pensa di questa generazione che la guarda con amore? «I giovani stanno meglio di noi, certo gli tocca il riscaldamento globale però se ci pensi quello lo subisco pure io. E un po’ li invidio perché sono giovani adesso e quindi sono più svegli e sanno tutto e subito. E questa cosa mi fa impazzire. Ho conosciuto persone di 23 anni che mi hanno parlato di fatture, di come si scaricano e cose del genere che io non so fare ancora oggi e che mi fanno perdere troppo tempo».

 

Che fastidio perdere tempo, in generale, ma quando questa sensazione di disagio viene espressa da un attore che dell’adolescenza si porta dietro ancora parecchi tratti sembra ancora più strano. Per i social per esempio. «Passo da un video all’altro perdendo tempo e mentre lo faccio mi pento e mi chiedo perché. Per esempio, sono tre settimane che guardo ininterrottamente video dell’11 settembre». Difficile rimanere seri in un momento in cui lo strato di surreale prende piede e si gonfia, come una torta, ma se dobbiamo giocare insieme perché mai tirarsi indietro. «Insomma, mi interessa sapere cosa avevano nella testa le persone che stavano vivendo quell’evento senza saperlo. Sembro matto vero? Però lo faccio per studio, e poi non ho capito, perché quando Barbero si documenta sui galeoni nessuno lo considera pazzo invece se io guardo i crolli dell’11 settembre sembro strano, boh, magari ci farò qualcosa, chi può dirlo».

 

Allora diciamocelo. Magari qualcos’altro nell’aria c’è. «Ebbene sì, sto scrivendo un film», e accompagna la frase con un gesto della mano come dire ah capirai «perché già questo gesto la dice lunga. E lo dirigerò pure, insomma faccio tutto io, già che mi trovo. Di che parla? Bah, dovrebbe far ridere, con un elemento crime da cui parte tutto. Ma ci vuole tempo, non è come uno sketch o un libro. Ai libri non serve budget, puoi inventare qualsiasi cosa in un attimo. Ti serve il sole o un alieno? Basta scriverlo. Diciamocelo, il libro è una forma d’arte base, come la focaccia. Il cinema invece è decisamente più faticoso». Ma c’è una ricetta perché un film funzioni al botteghino? «Semplice: deve essere ben fatto, come “C’è ancora Domani”». Intanto sta lavorando a un disco con i I Vazzanikki e a un nuovo spettacolo. «A dire il vero io avrei pure riproposto quello vecchio, “Il mansplaining spiegato a mia figlia” ma poi ho paura che magari vengono quelli che l’hanno già visto e si stufano. Perché purtroppo la gente torna, si ostina. E guarda che è un problema».

 

Vabbè parliamo di televisione. «La tv la vedo ogni tanto, quando sono a pranzo da mia madre che guarda soprattutto la Rai, da sempre. Ma non per motivi politici, per abitudine, perché sta sui primi tasti del telecomando. Una volta le famiglie di sinistra non volevano guardare Mediaset io invece da piccolo cercavo solo quello perché amavo i Simpson. Oggi lavoro in Rai anche se qualcuno pensa che mi stia stretta ma non è vero, non bisogna ragionare così. Il problema della televisione tradizionale è che vive nell’ansia di rendere tutto sacro e il risultato al contrario diventa meravigliosamente ridicolo. Se potessi scegliere cosa fare in tv? Ho provato a scrivere un quiz ma poi non me l’hanno fatto fare più. “Lol”? Non potrei mai vincere perché sono abituato a ridere per cortesia. Onestamente, fare “Una pezza di Lundini” mi divertiva tanto, poi ho smesso perché avevo paura che non venisse bello come le prime puntate, sai queste cose un po’ da artista appena uno molla un attimo il freno comincia a fare cose terribili (anzi teribbili, alla romana). Per creare situazioni nonsense gli ospiti simpatici non andavano bene, meglio quelli che parlavano una lingua diversa dalla mia, tipo Mario Draghi». Certo che di gente da quello studio diventato di culto ne è passata parecchia. «Qualcuno non è venuto ma non me la sono presa. Uno invece l’ho trovato insopportabile, ma non dirò chi è, tanto lui lo sa. Mattarella l’avrei ospitato volentieri, è una persona interessante, e anche il Papa. Poi avevo il sogno di intervistare Silvio Berlusconi e farlo parlare della sua morte. La Meloni? Non so cosa le avrei potuto chiedere, d’altronde ho smesso di fare il programma proprio perché avevo finito le idee».

 

Allora già che ci siamo rimaniamo sulla politica. «La seguo distrattamente, vado a votare e mi rendo conto che il Paese sta cambiando in peggio ma non mi va di riderci su: lo fanno tutti e questa soddisfazione alla politica non gliela voglio dare. Però non voglio fare quello anti impegnato a tutti i costi. Ci sono cose che uno (che poi sarei io) veicola che sembrano solo scherzose poi in realtà hanno un sottotesto politico e soprattutto sociale. È tutta una questione di etica della persona».

 

E visto che etica è una parola che Lundini usa spesso («Ma forse è solo perché scarseggio con i sinonimi») sarebbe il momento giusto per parlare di politicamente corretto ma non lo faremo. «Grazie davvero, se saltiamo sta domanda a questa intervista gli do cinque stelle. Sono tutti ossessionati dal politicamente corretto e per me è il tema in assoluto meno interessante. Non ha senso seguire il corretto o lo scorretto. Io provo a fare quello che mi diverte sperando di rimanere nel buon senso. Insomma, se tu scrivi delle battute su certi temi non è che sei “politicamente scorretto” è che magari sei razzista». Certo non fa una piega. «Mi piace declinare in forma televisiva la parodia dei comportamenti umani. Smontare e deridere la retorica non sincera, le frasi fatte, quelle che ti fanno chiudere le telefonate con “Vabbuò” anziché “Va bene”, o la cameriera che passa e dice “Attention “in francese per fare la simpatica, insomma cosette innocue che non danno fastidio a nessuno ma che raccontano come non ci sia niente di più surreale della realtà. Poi ci sono quelle più plateali, la retorica insopportabile, che dovrebbe persino avere un messaggio. Un esempio che mi fa impazzire? “I disabili sono straordinari”. Come se l’inclusione fosse questa. Mi fanno orrore sì, ma soprattutto mi fanno ridere, cioè se mi chiedessero di far sparire dal mondo questo tipo di ragionamenti assurdi direi di no perché sennò non riderei più. Che poi si continua a ripetere che oggi non si può più dire niente quando in realtà si dice proprio tutto, altro che la censura del passato».

 

A proposito di censura, è un tema che la riguarda? «Beh, il trucco è sempre fare le cose senza dirlo prima, molte delle mie battute se le raccontassi prima probabilmente mi chiederebbero di non farle, e forse lo direi anch’io al posto loro. E poi il punto è che quelli che in genere si incazzano non mi conoscono, di solito se la prendono con quelli più famosi, io non passo osservato. Gasparri non sa neppure chi io sia. Questo un po’ mi dispiace, vorrei piacergli però poi devi compensare: per ogni Gasparri ti deve apprezzare anche uno dall’altra parte, devono esserci tutti e due i capi del filo, tipo campo e controcampo, così li confondi un po’ sennò è un casino: se piaci a cinque Gasparri di fila sì che diventa un problema».

 

(foto di  Pietro Baroni)