Gli eredi della storica dinastia dei reali hanno un panfilo intestato a una società estera con sede in un bel paradiso fiscale. E nei documenti spunta anche la barca di Flavio Briatore, che gli è costata una condanna in primo grado

L’italiano medio se si compra una barchetta da diporto usata deve pagare l’Iva del 20 per cento, le sovra-imposte sul carburante, la tassa d’ormeggio e tutti gli oneri accessori applicati dal fisco italiano. Gli eredi della storica dinastia dei re d’Italia, invece, hanno uno yacht intestato a una società estera con sede in un bel paradiso fiscale. Mentre uno più ricchi imprenditori italiani ha potuto comprare un panfilo in acque internazionali: un’imbarcazione apolide, legalmente non tassabile in nessun paese del mondo. E nella flotta dei vip più navigati non poteva mancare lo yacht utilizzato da Flavio Briatore, dopo anni di duro lavoro, per i suoi momenti di evasione.

Tra la barchetta di seconda mano di un qualunque cittadino e i super panfili dei ricchi e potenti c’è di mezzo un mare di offshore. Anonime società-cassaforte, gestite da professionisti internazionali, con sede in Stati o staterelli dove non si pagano le imposte. Solo il bollo fisso di registro: poche decine di dollari all’anno. Per il resto, zero tasse. E zero entrate per tutti gli altri Stati. Anche se la società incassa e custodisce milioni. Ed è tutto legale, almeno in quei paradisi fiscali. Dove basta dichiarare solo un indirizzo, senza uffici né dipendenti: una casella postale, intestata a un fiduciario che dallo stesso recapito gestisce centinaia di offshore. Nella massima riservatezza.
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Ora i Paradise Papers, le carte segrete dei paradisi fiscali, svelano nomi e patrimoni anche delle offshore marinare. Storie di panfili, velieri e yacht di lusso raccontate nei 13,4 milioni di documenti ottenuti dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung e condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), rappresentato in Italia da L’Espresso e Report. Storie di società che veleggiano al largo delle tasse con sistemi legittimi, almeno fino a prova contraria, ma iniqui rispetto ai comuni contribuenti oberati di tasse per terra e per mare: l’ingiustizia fiscale applicata alla navigazione. In Italia, tra i vip con lo yacht in paradiso, spiccano nomi di primo piano dell’economia, dello show-business e perfino della storia.

Correva l’anno 2002 quando il Parlamento italiano, dopo una grandiosa campagna per il superamento degli odi politici del dopoguerra, ha cambiato la Costituzione per far rientrare in patria la famiglia Savoia, l’ex casa reale che fu esiliata dai padri della nostra Repubblica per punire l’adesione al fascismo e la fuga da Roma di Vittorio Emanuele III dopo la sconfitta e l’armistizio. Suo nipote, figlio dell’ultimo re Umberto II, deposto dopo il referendum istituzionale del 1946, salutò la fine dell’esilio con parole commosse: «Voglio tornare a Napoli, dove sono nato», dichiarò Vittorio Emanuele, il sovrano mancato. Lo yacht della famiglia reale, però, è rimasto a Malta. Un paradiso fiscale prezioso, perché interno all’Unione europea.
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La barca dei Savoia è intestata alla Sabaudia Shipping Company Limited, registrata a La Valletta dal 26 giugno 1991. Primo fiduciario, un professionista maltese, Mark Micallef. L’atto, da lui redatto in inglese, è firmato da Vittorio Emanuele, che si presenta come «sua altezza reale, figlio dell’ultimo re d’Italia Umberto II», ma precisa di essere «cittadino belga, residente a Ginevra». Come contitolari della offshore, lo sottoscrivono altre due “royal highness”: la moglie Marina di Savoia e il figlio Emanuele Filiberto. La società maltese risulta tuttora attiva.
Per il mancato re d’Italia, quelli erano giorni molto difficili. Era imputato di omicidio. Meno di cinque mesi dopo, il 18 novembre 1991, la corte d’assise di Parigi lo assolverà dall’accusa di aver sparato e ucciso volontariamente un turista di 19 anni, Dirk Hamer. Colpi partiti nella notte del 17 agosto 1978 da un altro suo yacht, chiamato Aniram (il nome rovesciato di Marina), ormeggiato vicino all’isola di Cavallo. Una sentenza che suscitò molti dubbi, poi amplificati, anni dopo, dalle parole dello stesso Vittorio Emanuele (intercettate dalla procura di Potenza) che confidava di aver preso in giro i giudici francesi. Dubbi ora riconfermati da una querela-boomerang del principe contro un giornalista di Repubblica, assolto perché ha scritto fatti veri.

Sulla offshore maltese, L’Espresso ha chiesto chiarimenti ai Savoia. Il segretario ha risposto che in effetti «Sua Altezza Reale il principe Vittorio Emanuele è azionista della Sabaudia Shipping Co. Ltd», precisando che «la società detiene una barca di 12,6 metri, costruita nel 1997, che non ha un grande valore commerciale». Tutto confermato, insomma, tranne la data: la offshore esisteva già da sei anni, forse era nata per gestire altri beni? Il portavoce di casa Savoia sottolinea inoltre che «non si tratta di un investimento», perché «la società non esercita alcuna attività commerciale». Insomma, è una barca personale, usata dai reali d’Italia per viaggi di piacere. Con la targa di Malta.

Quanto sia importante la destinazione, commerciale o privata, lo fa capire un’altra vicenda di offshore e tasse circumnavigate documentata dai Paradise Papers: la storia dello yacht che è costato una condanna in primo grado a un anno e undici mesi, nel luglio 2015, a Flavio Briatore, dichiarato colpevole di sette reati fiscali, dall’evasione alle fatture false. Con un’accusa-base che potrebbe far twittare di rabbia il suo vecchio amico americano Donald Trump: tecnicamente, il tribunale di Genova parla di «contrabbando di natante extracomunitario».
flavio briatore

Il barcone clandestino è il leggendario Force Blue: uno yacht pagato almeno 16 milioni e poi attrezzato a Genova con cabine e saloni da hotel di lusso, centro fitness, 20 uomini di equipaggio, massaggiatori, parrucchiere per signora e altri servizi da nababbi. La sentenza non è definitiva e comunque Briatore, per male che gli vadano i prossimi due gradi di giudizio, può scommettere sulla prescrizione. Il verdetto è interessante soprattutto perché dichiara legale anche per l’Italia il turbo-motore offshore che governa quella barca. Uno yacht registrato alle isole Cayman, attraverso una società anonima delle Isole Vergini Britanniche, gestita da consulenti di Guernsey: tutto intestato alla Autumn Sailing Limited, che però fa capo alla Fb Trust con base a Cipro. Un’architettura lecita, secondo il tribunale, anche perché lo stesso Briatore ha ammesso, davanti ai giudici, quello che già spiegavano le email sequestrate dalla Guardia di Finanza: dietro le società anonime, «il titolare effettivo» è sempre stato lui.

Il problema è che Briatore ha esagerato: per non pagare 3,6 milioni di Iva e altri 535 mila euro di tasse sul carburante, ha presentato la sua offshore come «società commerciale» e la barca come «azienda». Usata anche da lui, ma «come cliente», che pagava l’affitto «come gli altri». Ma la procura di Genova ha documentato che Briatore aveva «l’uso esclusivo» dello yacht «per più di metà dell’anno» e «per un intero quinquennio»; «non ha mai pagato il conto» di almeno tre lunghi viaggi tra Barcellona e la Sardegna; e i soldi versati alla offshore «gli venivano immediatamente restituiti dal trust senza giustificazione». Quando poi lo yacht navigava «ai Caraibi o in acque spagnole», dove la legge non ammette che una nave commerciale porti a zonzo solo il suo proprietario, la classificazione cambiava in «pleasure»: barca personale, per viaggi di piacere.

In attesa della futura sentenza definitiva, i Paradise Papers documentano che Briatore era «l’unico titolare» fin dall’inizio, nel 2004, quando la offshore si è fatta prestare 7,2 milioni dalla filiale alle Cayman della banca Ansbacher. Mentre i fiduciari di Guernsey descrivevano così l’attività della società: «Possedere uno yacht che sarà usato per fini privati di piacere e/o scopi commerciali».

Alle domande dell’Espresso, una portavoce ora conferma che «Autumn Sailing Ltd è una società posseduta nel tempo da trust dei quali il signor Briatore era il beneficiario economico». E assicura che «ha esercitato attività commerciali, possedendo il Force Blue e acquistando imbarcazioni anche attraverso mutui bancari».


Anche il celebre imprenditore Silvio Scaglia, che ha guadagnato una fortuna con la cessione di Fastweb, è registrato nei Paradise Papers con uno yacht da sogno. La sua assistente conferma quanto risulta all’Espresso: «È stato comprato dall’ingegner Scaglia nel 2006, quando era registrato alle isole Cayman, dal venditore, con il nome di Red Dragon. Immediatamente dopo l’acquisto, fu ribattezzato Vent d’Est e registrato con bandiera inglese. È stato venduto nel 2010, come correttamente riportato nei bilanci della società». Si tratta di una offshore dell’isola di Guernsey con lo stesso nome: Vent d’Est Yacht Management Ltd. E Scaglia l’ha dichiarata nei bilanci del suo gruppo, che ha la cassaforte in Lussemburgo. Tutto normale, insomma, come per una barca italiana. Tranne un particolare. Nel giugno 2006, preparando la compravendita, i consulenti scrivono che «è importante che i documenti arrivino prima di entrare in acque francesi». E il contratto, custodito dallo studio Appleby, risulta concluso fuori dai confini degli Stati, «in acque internazionali»: uno yacht apolide.