Dopo tre anni di udienze a Reggio Calabria il pm ha concluso davanti ai giudici chiedendo l'ergastolo per il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima calabrese, Rocco Santo Filippone. Ma il fascicolo reggino sui nuovi filoni d'indagine è ancora aperto

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La caccia ai cosiddetti “mandanti esterni delle stragi”, capitolo incompiuto dei processi siciliani, passa da Reggio Calabria. «Arrivare a una verità piena è solo una questione di tempo» dice il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Promessa per alcuni, minaccia per altri, le parole di Lombardo arrivano al termine della requisitoria fiume con cui il magistrato ha riassunto la monumentale istruttoria del processo “’Ndrangheta stragista”.

Tre anni di udienze, testimonianze, riscontri investigativi frutto di indagini che la Squadra mobile di Reggio Calabria e il Servizio Centrale Antiterrorismo hanno portato avanti fino alla fine del dibattimento, per poter arrivare ad affermare «con prove sovrabbondanti» che anche la ‘Ndrangheta ha detto sì alla stagione degli attentati continentali. Per questo – ha chiesto il magistrato - il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima calabrese, Rocco Santo Filippone, devono scontare l’ergastolo. Sono stati loro a ordinare l’omicidio dei brigadieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo e quello tentato di altri quattro militari fra il dicembre ’93 e il febbraio ’94, con cui quel patto di sangue è stato firmato.
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Anzi, al conto Filippone deve aggiungere anche 24 anni per associazione mafiosa Filippone. Da uomo dei Piromalli, è stato lui che il ristrettissimo direttorio dei clan calabresi ha delegato non solo ad organizzare i tre attentati, ma anche a nascondere la firma della ‘Ndrangheta, scaricando la responsabilità sulle spalle di due giovanissimi picciotti, pronti a raccontare quegli omicidi mirati come frutto di una bravata. Invece – è emerso da inchiesta e processo - erano «il colpo di grazia» deciso dal «sistema criminale di cui le mafie fanno parte» ma che non si ferma ai clan. E alle altre componenti di quel sistema è già partita la caccia.

SULLE TRACCE DEI MANDANTI
Ecco perché più che una conclusione, la requisitoria del procuratore Lombardo sembra un nuovo inizio. Perché «si è dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio che i carabinieri sono state vittime di un più ampio disegno stragista, opera delle mafie, ma di cui i mandanti sono ancora occulti» dice il procuratore capo Giovanni Bombardieri, che ha voluto essere in aula al momento delle richieste di pena. Perché «il ruolo di Forza Italia in quella stagione - si lascia scappare il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, capo della Dda di Reggio quando l’inchiesta è stata avviata e anche per questo in aula per la conclusione della requisitoria - riguarda altre indagini». E la ricostruzione del disegno eversivo in cui gli attentati calabresi sono inseriti, aggiunge, «è in linea con gli approfondimenti che tante procure distrettuali stanno sviluppando». Reggio inclusa, se è vero che Lombardo ha approfittato del suo intervento conclusivo per sfidare «chi conosce questa storia e adesso non è qui ma ci sta ascoltando. Che lo facciano, così sapranno cosa faremo domani».
Per lui e l’intera procura di Reggio, che su questo filone investigativo da tempo ha puntato, le mani che hanno disegnato quella stagione di sangue non erano per nulla esterne. Sono espressione del medesimo sistema criminale complesso di cui fanno parte i vertici dei clan. E nel contatto con loro diventano “alta mafia”, che nulla ha a che fare con coppole e lupare. «Noi - spiega in aula il procuratore aggiunto Lombardo -abbiamo vissuto una stagione stragista riferibile a un sistema criminale che va oltre le mafie». Lo indica la sottile grammatica delle rivendicazioni che i clan da soli non avrebbero avuto i riferimenti culturali e la capacità di elaborare, lo dicono trent’anni di depistaggi, che nonostante soldi e potere, le mafie mai avrebbero avuto la capacità di disegnare, lo dicono spunti investigavi – colposamente o dolosamente – fino ad oggi mai ricondotti ad un disegno unico.

FORZA ITALIA E GLI ACCORDI TRADITI DEGLI ANNI NOVANTA
Bombe, attentati, omicidi, terrore erano funzionali ad un disegno eversivo dettato da ragioni economiche e politiche. E Giuseppe Graviano, che a Reggio Calabria ha rotto un silenzio che durava da decenni, è stato il primo a confermarlo. Con la sua rabbia, espressione – ha spiegato il procuratore aggiunto – di accordi non rispettati, cui fanno eco le conversazioni intercettate in carcere e mai smentite, durante le quali per la prima volta ha tirato in ballo Silvio Berlusconi.
«Sì, 30 anni fa mi sono seduto con te, giusto è? – diceva intercettato, in un immaginario dialogo con il padre padrone di Forza Italia - Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché a te ti rimangono i soldi». Questioni tirate in ballo e approfondite anche in udienza, quando il boss di Brancaccio ha accusato Berlusconi di aver ricevuto per anni finanziamenti occulti dalla sua e da altre famiglie siciliane. Soldi «serviti per l’edilizia, le televisioni, per tutto» e mai restituiti. Denaro di cui – ha affermato il boss di Brancaccio in aula - ci sarebbe prova in una scrittura privata in mano alla sua famiglia, che sembra far eco a quel «quadernetto che poteva provocare un terremoto» che Toni Calvaruso dice di aver ricevuto da Bagarella e consegnato a Graviano.
E se su quella pista gli approfondimenti sembrano in corso, dei flussi finanziari che dalla Calabria arrivavano all’impero di Berlusconi si è già trovata traccia. Perché tramite il loro imprenditore Angelo Sorrenti, i Piromalli sono entrati nell’affare Fininvest. Perché fin troppi pentiti parlano di quei capitali mafiosi che il clan De Stefano - di diritto uno dei sette del direttorio di clan che governa la ‘Ndrangheta - girava ai Papalia, i boss di Platì trapiantati in Lombardia, perché lo investissero nei cantieri di Milano 2 e 3. Lì dove anche Graviano sostiene di averci messo soldi.

FALANGE ARMATA, UNA FIRMA E UNA CHIAVE
Reggio – dicono verbali depositati agli atti del processo Gotha – sta riascoltando Michel Amandini, il commercialista pentito della ‘Ndrangheta milanese che negli anni Novanta faceva magie con i soldi dei clan. E chissà che da lui qualche indicazione non possa venir fuori. Anche perché negli anni in cui la stagione delle stragi è stata preparata, Milano è stata crocevia. Di rapporti fra mafie diverse riunite nel Consorzio che ne coordinava l’azione. Di legami fra settori dell’intelligence e mafie, forgiati all’ombra dei Moti di Reggio e del fallito golpe Borghese nel 1970 e che dagli anni Ottanta in poi hanno avuto nel boss calabrese Antonio Papalia il principale terminale.
«È da lui - afferma il procuratore Lombardo - che Riina eredita la sigla Falange Armata» con sono state firmate te le stragi, con rivendicazioni nascoste in un fiume che si arresta nel gennaio ’94, con la telefonata che avverte di un attentato in preparazione al Marassi di Genova. «Graviano, e ce lo dice Spatuzza, era certo di avere il Paese nelle mani, ma bisognava dare il colpo di grazia con l’attentato all’Olimpico poi fallito ed era necessario spazzare via ogni possibile dubbio sulla sua paternità» dice Lombardo. E poi, quella sigla è una chiave. «Significava comunicare con certi ambienti, con cui le mafie si erano già relazionate e che si identificavano con i vertici dello Stato». E serviva ad identificare senza ombra di dubbio i mittenti, che rompono un silenzio durato vent’anni, solo per chiudere la bocca a Riina, nel 2014 intercettato in carcere a chiacchierare di cose e accordi di cui nessuno doveva sapere.

LA CRISI DEGLI ANNI NOVANTA CHE OBBLIGA IL SISTEMA A MANIFESTARSI
Non è l’unico tratto di strada su cui Cosa Nostra e ‘Ndrangheta abbiano camminato insieme, a braccetto con altre componenti di un sistema criminale che negli anni Novanta – ricostruisce il processo – aveva l’obbligo di manifestarsi. Perché rischiava di perdere tutto. «Quella stagione – spiega il pm - ruotava attorno al crollo comunista e vedeva il disgregarsi di una serie di forze massoniche di ispirazione gelliana e pezzi di apparati di sicurezza della rete di Gladio» che con il crollo del muro avrebbero perso il proprio potere contrattuale di “creditore di ultima istanza” in caso di “avanzata rossa”. E con il venir meno di Dc e Psi che di quel sistema si erano fatti garanti, non c’erano più referenti politici affidabili. Quegli apparati avrebbero perso il proprio potere contrattuale. E senza quelle relazioni e le interlocuzioni politiche, istituzionali ed economiche che hanno dettato, le mafie avrebbero perso gran parte del loro capitale sociale. Per questo – è la conclusione dell’inchiesta – con le stragi e le trattative che quelle stragi hanno dettato, il sistema criminale di cui ‘Ndrangheta e Cosa Nostra fanno parte ha imposto la propria permanenza in vita.
Bombe nelle strade, trattative nei salotti e laboratori politici che nel tempo hanno sfornato prodotti diversi. «Si immaginava di sfruttare le potenzialità elettorali della Lega nord e, come abbiamo visto da alcune testimonianze, su indicazioni di Gelli e anche di pezzi del Vaticano si porta avanti il progetto della Lega meridionale. Un progetto che in realtà diventa una mera copertura nel momento in cui quelle componenti criminali sanno che Forza Italia sta per diventare un soggetto politico effettivo» riassume il pm che poi mette in fila quelle che alla luce del quadro generale non appaiono coincidenze. «Ecco Provenzano che si muove su quel versante, ecco Bagarella che abbandona Sicilia Libera. Ecco Graviano che li informa di quello che sta accadendo nel dicembre del 1993, nel momento in cui – e ce lo ha detto qui - con chi quel progetto politico lo stava portando avanti. Ecco Giuseppe Piromalli che nell'udienza del processo di Palmi dichiarerà in quell'esatto momento storico 'Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”».
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«QUEL SISTEMA NON E’ FINITO»
Ma questa – ha lasciato intendere il pm – è solo una parte del disegno. «Quel sistema criminale è ancora attivo» dice Lombardo. E la procura è già da tempo sulle altre tracce che ha lasciato nella storia non solo calabrese. Lo dicono gli approfondimenti investigativi non ancora conclusi sulla rete di Giovanni Aiello, l’ex poliziotto della Mobile di Palermo, da pentiti calabresi e siciliani riconosciuto come il “killer di Stato” Faccia di mostro, morto «in circostanze tutte da verificare - sottolinea Lombardo - apparentemente di infarto». A cui il magistrato crede fino ad un certo punto perché «fino a quando non ho la prova provata di quello che dico, mantengo lo scetticismo tipico dell'investigatore. Anche perché Aiello muore 15 giorni dopo l'esecuzione dell’ordinanza 'Ndrangheta stragista». E quella dell’ex poliziotto, per gli investigatori vicinissimo all’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada è stata per anni una presenza, puntuale e insistente. La sua ombra compare tanto in Sicilia, come in Calabria, in prossimità di attentati, compiuti e falliti, dall’Addaura alle bombe contro la procura generale di Reggio Calabria nell’inverno del 2010, di omicidi rimasti insoluti come quello del poliziotto Nino Agostino, di agguati come quelli costati vite e ferite ai carabinieri. E magari non da solo. E di certo – si ipotizza – non per iniziativa autonoma.

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Ma che la caccia ai mandanti esterni sia in corso lo rivela anche l’inchiesta - che da tempo si sa aperta – sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ammazzato in Calabria nell’agosto del ’91, mentre preparava l’accusa per il maxiprocesso alla Cupola di Cosa Nostra che di lì a qualche mese sarebbe arrivato in Cassazione. Indagini passate attraverso il ritrovamento del fucile usato per quell’attentato, forse agevolate dai segreti che quell’arma ha rivelato, adesso – pare - vicine ad un punto di svolta. Che potrebbe permettere di retrodatare all’estate del ’91 l’inizio di una strategia stragista fino ad oggi calcolata a partire dall’omicidio di Salvo Lima.

PISTE FRESCHE
E poi ci sono tracce più recenti che quel sistema criminale, entrato in azione con tutta la sua violenza nella stagione delle stragi, ha lasciato. Sono affiorate nel processo che si è concluso con la condanna dell’attuale sindaco di Imperia, Claudio Scajola, a due anni di carcere (con pena sospesa) per aver aiutato l’ex parlamentare Amedeo Matacena, tuttora latitante a Dubai, a sottrarsi ad una condanna definitiva per mafia. Una fuga – hanno scritto i giudici nel motivare la decisione – molto, troppo simile a quella di Marcello Dell’Utri, arrestato a Beirut dove anche Matacena, secondo i piani, avrebbe dovuto trovare rifugio. «È altamente verosimile che le due latitanze siano maturate nell'ambito dello stesso contesto con un trait d'union che e? stato di certo Speziali Vincenzo, naif quanto pare, ma certamente io grado di intessere legami e relazioni». Si tratta, specifica il Tribunale, di «rapporti vischiosi tra personaggi appartenenti al mondo della politica, del commercio, della finanza, dell'imprenditoria, della massoneria».  Ha iniziato ad esplorarli la Dia e quei primi approfondimenti – legati ad un altro fascicolo di indagine – sono stati condensati nell’informativa “Stato parallelo”.

È la base di un’indagine che nella matassa di ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti deviati che orbita da anni attorno a Reggio Calabria e ai suoi segreti, ha trovato il filo che per l’ennesima volta porta ad una “superassociazione occulta”. Anzi, per la precisione – si legge in quelle carte – ad un «sistema pancriminale», ancora una volta stanato da una crisi. È quello che si è dovuto mettere in moto in fretta per garantire la latitanza di Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena, condannati entrambi come rappresentanti delle mafie nel mondo della politica. E nel muoversi, quel mondo ha mostrato pezzi di sé. Nei salotti romani dove quelle latitanze sono state discusse, nei rapporti internazionali che le hanno sostenute, negli accordi economici che sono costate.
Sono fili che dalle cene nella capitale portano ai grandi appalti italiani in Libano, dalla costruzione di una ferrovia nella valle della Bekaa allo sfruttamento di due giacimenti petroliferi, anche grazie ai contatti maturati in quei salotti. Accordi – scrivono gli investigatori in quelle carte – discussi direttamente da intermediari libanesi nel quartier generale dell’Eni a Roma, dove con tanti onori sono stati ricevuti l’ex presidente libanese, Amin Gemayel, parente acquisito di chi ha personalmente gestito le latitanze dei due politici, e il ben più noto e potente cugino, Robert K. Sursock, capo libanese di Gazprombank, terza banca di Russia e braccio finanziario dell’omonimo colosso russo dell’energia.

A Sursock l’Italia interessa parecchio. Il progetto poi è sfumato, ma proprio in quegli anni in ballo – ha ricostruito la Dia – aveva una speculazione immobiliare con Stefano Ricucci, che allo scopo già si era organizzato per accedere a linee di credito all’estero, grazie anche alle garanzie offerte dall’ex parlamentare della Lega Carolina Lussana. E chissà che anche il Carroccio non torni ad entrare nei progetti investigativi della procura di Reggio Calabria.

È dalla riva calabrese dello Stretto che, seguendo le tracce di imprenditori del clan De Stefano impegnati ad investire al Nord, il procuratore aggiunto Lombardo ha incrociato le tracce di quei 49 milioni di rimborsi elettorali, spariti dalle casse della Lega. Adesso il Carroccio ha strappato la possibilità di restituirli a rate in 75 comodi anni. Ma che si sappia, il fascicolo reggino non è mai stato definitivamente chiuso.