Il 30 giugno molte reti televisive dovranno far posto alla telefonia liberando le frequenze. E forse si spegneranno per sempre, lasciando a casa cinquemila tra tecnici e cronisti. “Condannato nel silenzio l’artigianato del giornalismo”

La chiamata arrivava di notte, era quasi sempre per un omicidio e si correva, telecamera in spalla e microfono in mano. In tempi in cui la mafia imperava tra Palermo e Catania, Agrigento veniva chiamata la «provincia babba», ma gli omicidi negli anni Ottanta e Novanta furono comunque centinaia, e a raccontarli  erano sempre le telecamere di Teleacras, emittente che formò giornalisti dalle scarpe consumate e dalle notti insonni.

 

Anche per questa realtà locale non sarà facile sopravvivere dopo lo switch-off che per le grandi tv segna «la nuova rivoluzione» ma che per le piccole emittenti radicate sul territorio italiano, da Nord a Sud, sarà un funerale. Il 30 giugno prossimo, calcolano gli addetti ai lavori, 450 tv locali si spegneranno per sempre lasciando a casa circa 5mila lavoratori tra cui almeno mille giornalisti. La prima mannaia sulle piccole realtà locali, che garantiscono un pungolo per le amministrazioni e una garanzia di informazione e pluralismo di voci per i cittadini di ogni regione, è arrivato soltanto dieci anni fa, nel 2012, su indicazione della Ue che ha imposto il passaggio alla trasmissione in digitale ai Paesi membri. Fu stilata così una lista che imponeva determinati requisiti al fine di assegnare le frequenze: furono centinaia in tutta Italia le tv che dovettero salutare per sempre gli schermi.

Chi allora si era salvato, però, rischia di soccombere adesso: solo dopo dieci anni una nuova rivoluzione delle tv, dovuta all’attivazione dei servizi di telefonia mobile 5G sulla banda dei 700 Mhz, oggi occupata dalle tv, ha portato alcuni italiani a dover buttare i vecchi televisori e dall’altro lato costringerà alcuni editori a dover chiudere bottega. Il passaggio al Dvb-T2, come è chiamato, verrà sancito dal primo gennaio 2023. Tutto però è stato deciso e se le grandi tv non hanno avuto problemi, convertendosi subito in Hd, per le piccole realtà già al collasso dopo pandemia e guerra, la novità ha portato a grandi proteste. Ad oggi inascoltate. «Se ne strafottono», dice senza mezzi termini il volto di Teleacras, Angelo Ruoppolo, in un servizio dedicato al tema. «Tante cose sbagliate sono state fatte in questo passaggio», spiega la direttrice della tv agrigentina Enza Pecorelli: «Noi non molliamo ma i problemi ci sono: ci hanno dato la trasmissione zona di Palermo e adesso siamo in trattativa con il ministero per modificare lo stato delle cose, ma tante altre tv, soprattutto nel Catanese saranno costrette a chiudere. Così perdiamo il pluralismo dell’informazione da un lato e dall’altro in un momento del genere, con la crisi e la guerra, molti rimarranno a casa, senza lavoro».

Switch-off
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Nella sua battaglia, condotta anche a Roma con le altre piccole tv italiane, l’editrice della tv agrigentina è accompagnata dalla figlia: «Lotteremo con le unghie e coi denti ma siamo stati abbandonati dalla politica in modo meschino. È un bagno di sangue, non siamo noi a decidere il nostro futuro, ma è la politica che non tiene conto delle piccole realtà», dice Giuliana Pecorelli.

 

Il passaggio all’alta definizione e alla trasmissione dei canali in Mpeg-4 vuole migliorare la qualità delle trasmissioni ma a discapito della pluralità dell’informazione, che invece non avrà un futuro. «L’otto marzo è cominciata la rivoluzione ma per le emittenti locali è il giorno del lutto nazionale», dice Antonio Diomede, presidente Rea, Radiotelevisioni europee associate, autore di una petizione per salvare le reti: «Dopo 45 anni dobbiamo abbandonare le frequenze per il 5G. C’è una volontà politica per farci chiudere. È un complesso di malagestione e malapolitica, una schifezza nazionale che ha portato a dei bandi selettivi per le emittenti locali, al fine di piazzarle nei pochi canali che sono rimasti nei posti ormai ridotti. Per questo bando scandaloso il requisito principe è l’Auditel. In questo modo siamo certi che più di 400 emittenti chiuderanno mentre altre dovranno pagare canoni di affitto annuali che si aggirano sui 70 mila euro».

 

Chi rimane, infatti, non avrà vita facile: a gestire le frequenze è infatti il duopolio Raiway ed Ei Towers (Mediaset) e chi è stato inserito in graduatorie per un canale dovrà pagare un canone di affitto che varia in base alla banda richiesta e al numero dei potenziali spettatori, calcolati in base al numero degli abitanti della regione di appartenenza o delle macro aree che con questo sistema di assegnazione si sono create, dando pure un anticipo di tre mesi.

 

Alcune regioni, come Molise e Abruzzo, sono state accorpate nell’assegnazione dei canali, dove c’è spazio solo per alcune realtà che, sicuramente, non riusciranno a coprire tutto il territorio, vasto ed eterogeneo. «Noi abbiamo accettato il contratto o avremmo chiuso: c’è la volontà di sfoltire le reti», spiega Aldo Porfirio di Tlt Molise, che aggiunge: «Ci siamo ritrovati a concorrere con altre regioni dopo la riallocazione del 2011 alla quale ha partecipato soltanto chi poteva, mentre altri sono stati costretti a chiudere. Adesso speriamo di riuscire a sostenere i costi ma non è semplice: più banda si chiede, più si deve pagare, 45 mila euro a megabit, poi ridotto a 31,5. Noi abbiamo chiesto 2 megabit e dobbiamo pagare un affitto di 63 mila euro l’anno, ma alcuni non possono sostenere questi costi». Tra Lombardia e Veneto molte realtà non vedranno l’estate: la frequenza infatti può contenere poco più della metà dei programmi regionali di quelli previsti in passato, quindi per alcune tv di certo non ci sarà spazio. «Il “refarming” ha chiesto sforzi considerevoli: il contratto è oneroso e anche se porta a un segnale capillare, non è facile da sostenere, tanto che altre tv saranno costrette a interrompere le trasmissioni», spiega don Roberto Ponti di Telenova, tv milanese. La nuova linea dettata dall’Europa per il 5G vuole risolvere anche le interferenze di rete con i Paesi vicini, Malta e Albania: «Per non interferire con Malta l’Italia si taglia le mani: noi abbiamo le carte in regola per essere in graduatoria ma possiamo trasmettere soltanto nelle province di Palermo e Messina», dice senza mezzi termini Giuseppe Ranno, di VideoStar, tv catanese che dovrà chiudere dal 2 maggio: «Dopo 36 anni siamo costretti a chiudere perché per Catania non hanno previsto canali per non interferire con Malta, è assurdo. La cosa paradossale è che attendiamo un tavolo tecnico da mesi, ma quando arriverà noi saremo già chiusi. Non ci hanno permesso neanche un anno di proroga per studiare altre soluzioni che abbiamo già proposto. Invano».

Tra le tv siciliane, la prima a cadere è stata Telejato di Pino Maniaci, presidio antimafia della provincia palermitana: la situazione non si è risolta nonostante uno sciopero della fame del direttore. Niente da fare: la protesta non sembra aver scalfito le decisioni dell’AgCom che i primi di maggio ha iniziato dalla Sicilia a spegnere le frequenze, fino a dimezzare le tv locali italiane entro il trenta giugno. Il 5 maggio lo stesso Maniaci ha spento gli impianti di trasmissione della rete, annunciando sui social che le trasmissioni per continueranno solo online a meno che non si riescano a raccogliere 40mila euro.

 

«La situazione è precaria, il mercato è in forte calo, la crisi ha inficiato anche il lavoro dei commercianti e quindi ci sono meno entrate pubblicitarie. In questo modo sarà veramente dura andare avanti, soprattutto se la politica non si muove come successo fino ad oggi», aggiunge il giornalista Nicolò Giangreco, di TeleStudio98.

 

In Puglia l’allarme è stato lanciato dai sindacati: anche le province di Taranto, Foggia e Lecce rischiano di dover dire addio a molte delle emittenti locali, perché la riassegnazione delle frequenze prevede meno posti rispetto alle tv esistenti. «È un patrimonio storico che non può essere abbandonato a sé stesso o disperso», dice il segretario generale della Slc Cgil Puglia Nicola Di Ceglie: «La nuova distribuzione delle frequenze rischia di dare un colpo pesante all’informazione locale. Tutto questo in una fase di overload di informazioni di carattere generale e di una sempre più diffusa problematica relativi a un uso distorto della rete per la diffusione di fake news che non hanno passato alcun filtro professionale».

 

In Puglia sopravvivranno poche tv e tra queste non c’è Teleblu, tv del Foggiano che chiuderà i battenti: «È così complicato quello che hanno fatto che alla fine non sappiamo neanche noi perché siamo costretti a chiudere», sorride amaramente l’editore Potito Salatto: «Ci dicono sempre che per competere bisogna essere sempre più grandi e finiamo così per perdere la libertà di stampa. Con questa riforma si sta rimuovendo l’artigianato del giornalismo, lasciando a casa coloro che lo fanno per passione. Ormai rimane l’amarezza, dopo trent’anni di tv dobbiamo dire addio all’informazione, eravamo liberi e non ricattabili, adesso ci hanno spento». L’editore pugliese però non si vuole fermare, e a 70 anni pensa a una nuova vita dell’informazione a Foggia: «Non mi fermo, se qualcuno ha voglia di scrivere, voglio fondare un settimanale, l’informazione libera deve continuare a esistere».