Inchiesta
I malati psichiatrici in Italia stanno aumentando, ma lo Stato li ha abbandonati
Il numero di pazienti cresce anche a causa delle conseguenze di lockdown e pandemia, soprattutto tra i bambini. Ma quelli che riescono a ricevere un’assistenza all’altezza sono sempre di meno. «Non un solo euro del Pnrr andrà alla salute mentale» denunciano i medici
«Rifiutare il cibo a otto anni significa non voler più crescere. È drammatico». Alberto Zanobini apre a L’Espresso le porte del reparto di neuropsichiatria infantile del Meyer di Firenze, l’ospedale pediatrico che dirige. Spiega che dopo la pandemia i casi di bimbi con disturbi mentali sono in allarmante aumento. L’Espresso torna a parlare del disagio mentale e di un sistema nazionale che scricchiola, all’indomani dell’inchiesta che ha svelato la presenza di pazienti psichiatrici nelle carceri italiane.
Al Meyer ci sono bimbi affetti da anoressia, altri hanno tentato il suicidio: «Stiamo cercando di raddoppiare i posti letto. Ci riusciremo entro il prossimo anno. Ma non basta per affrontare l’emergenza», racconta il primario, che continua: «L’accesso al reparto di neuropsichiatria pediatrica è passato da una media di 250 bambini l’anno ai 562 casi del 2021. E nei primi mesi del 2022 c’è stato un ulteriore aumento. Non si era mai registrata un’accelerazione tanto importante di ricoveri per tentati suicidi e autolesionismo, che sta mettendo a dura prova i dipartimenti infantili di tutta Italia», dice Zanobini, che è anche presidente dell’Associazione ospedali pediatrici italiani.
Il professore lancia un appello affinché il governo si occupi del malessere dei più piccoli, prima di compromettere il futuro di un’intera generazione, perché se il disturbo mentale non viene curato ai primi sintomi, può provocare gravi conseguenze. «Non un soldo del Pnrr, il piano di ripresa e resilienza, è destinato alla salute mentale, un grave errore di sottovalutazione, perché questa rischia di diventare una pandemia ben più dannosa del covid».
Anche l’Osservatorio nazionale sui farmaci dice che il consumo di psicofarmaci nei bambini è aumentato dell’11 per cento, perché il più delle volte le medicine sono l’unico mezzo a disposizione degli specialisti per affrontare la malattia. Va così a causa della cronica carenza di specialisti - psichiatri, psicologi, educatori ed infermieri: non potendo offrire un sostegno psichico e sociale, la soluzione è un farmaco. «Sempre più spesso non possiamo dimettere i piccoli pazienti perché non sappiamo dove inviarli. Le famiglie non sono pronte ad affrontare da sole la malattia, i centri territoriali di cura sono sovraccaricati. Quindi si rimandano le dimissioni, aggravando la situazione», spiega il direttore del Meyer.
La fragilità mentale dei minorenni è la punta più acuta del generale dissesto del sistema di cura e assistenza della salute mentale italiana. Lo testimonia il dossier “Domanda di salute mentale e capacità di risposta dei Dipartimenti di salute mentale” di Fabrizio Starace, direttore del dipartimento di salute mentale di Modena e presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica, secondo cui solo il 55 per cento del bisogno di cura dei cittadini viene soddisfatto, perché il personale in servizio è di gran lunga inferiore alla richiesta di assistenza.
E la restante parte? «Per una visita psichiatrica i pazienti attendono anche un anno», dice Cristina Ardigò, presidente dell’associazione Aiutiamoli, centro di ascolto e aiuto di persone con disagio psichico, che arriva dove il pubblico ha battuto in ritirata. «Giusto ieri una madre in ansia ci ha contattato perché la figlia sta manifestando gravi problemi comportamentali. Ha raccontato di non poterla lasciare sola, perché teme azioni improprie, e di non sapere a chi rivolgersi», racconta Ardigò, che riceve una media di tre nuove richieste di aiuto a settimana.
Francesca Moccia di Cittadinanzattiva conferma: «Con sempre maggior frequenza le famiglie lamentano il peso dell’assistenza che ricade tutto sulle loro spalle, con conseguenze negative economiche, sociali e lavorative. I dati del nostro Rapporto annuale sulla sanità, presentato il 5 maggio, dicono che un paziente su quattro denuncia difficoltà di accesso alle cure pubbliche. Inoltre quasi un cittadino su quattro lamenta la scarsa qualità dell’assistenza fornita nei dipartimenti e centri di salute mentale, per ridotte ore di assistenza, per numero e frequenza di incontri, per una cura quasi sempre affidata esclusivamente alla terapia farmacologica. Il bonus psicologo è un palliativo: nei servizi pubblici ci sono soltanto cinquemila psicologi e a supplire alle carenze del servizio sanitario sono i pazienti e le loro famiglie. Nel frattempo, come conferma il nuovo Rapporto Bes dell’Istat, negli ultimi due anni è raddoppiata la percentuale di adolescenti con problemi di salute mentale. E nei servizi pubblici manca personale, risorse, formazione».
Eppure il modello italiano di cura è un’eccellenza riconosciuta in tutto il mondo grazie alla Legge 180, entrata in vigore nel 1978 e ispirata allo psichiatra Franco Basaglia, secondo cui il paziente psichiatrico è un malato come tutti gli altri, con uguali diritti e doveri di un qualunque cittadino. Grazie a Basaglia sono stati chiusi i manicomi e i pazienti affidati alle cure della rete sanitaria territoriale. Il punto di riferimento è il locale Centro di Salute Mentale, dove un team di psicologi, psichiatri, infermieri ed educatori offre l’assistenza necessaria e indirizza il paziente verso i servizi più adeguati: alle strutture semi residenziali o alle residenze terapeutiche e socio-riabilitative, oppure ai day hospital e agli Spdc, cioè i reparti di psichiatria degli ospedali. L’obiettivo è ridurre l’uso di psicofarmaci a favore delle terapie psico sociali e del progressivo reinserimento nella società.
«Questo eccellente modello ha raggiunto il suo apice negli anni Novanta, garantendo una capillarità di servizi sul territorio e una riduzione dei ricoveri ospedalieri», racconta lo psichiatra Francesco Starace, che continua: «Si tratta di un grande capitale che negli ultimi quindici anni ha subìto un progressivo depauperamento di risorse e personale a causa dei tagli ai sistemi regionali, che hanno toccato soprattutto l’area della salute mentale. Parallelamente c’è stata una crescita del bisogno di cure», racconta Starace, che snocciola i numeri del dissesto: «Nel primo anno della pandemia centomila italiani hanno rinunciato alle cure e si sono registrate 2,5 milioni di prestazioni in meno. Il personale dipendente, composto da 28.807 professionisti, è ben al di sotto dello standard minimo: avremmo necessità di oltre il 40 per cento in più di forza lavoro». Alla Salute Mentale spetterebbe il cinque per cento del fondo del Servizio Sanitario Nazionale, ma al contrario solo il 2,9 per cento delle risorse viene destinato al disagio mentale.
Attilio Monguzzi è un padre che da vent’anni convive con il male psichiatrico del figlio: «Vent’anni fa pensavo che i livelli di assistenza fossero scadenti. Oggi mi rendo conto che all’epoca i servizi erano accettabili, se paragonati al deserto attuale. L’emergenza è totale e il problema più grosso è il passaggio dalla neuropsichiatria infantile alla psichiatria per adulti: lì le famiglie precipitano nel vuoto. E comincia il calvario».
Spesso, nella fascia d’età più giovane, le diagnosi sono doppie o triple. «Significa che a un lieve ritardo si aggiunge un disturbo mentale e l’abuso di sostanze, che i centri di salute mentale non sanno affrontare. E dopo la prima visita psichiatrica, non succede più nulla, perché i Centri di cura sono già al completo. Così la famiglia viene lasciata sola», spiega Monguzzi, che ha fondato l’associazione lombarda Giulia e Matteo per aiutare le famiglie. In particolare ha avviato un corso di auto mutuo aiuto: «È l’unico appiglio per i genitori, chiamati a gestire situazioni complesse, con ragazzi che entrano ed escono dagli ospedali, unico presidio ancora funzionante, ma che si limita a curare la crisi acuta: rientrata l’emergenza i ragazzi vengono rimandati a casa, senza un percorso, senza una terapia, con scarse visite a domicilio finché non sopraggiunge la crisi successiva».
L’unica soluzione è rivolgersi a centri di cura privati, le Rsa specializzate nell’infermità mentale: «In alcune regioni, come Lombardia, Lazio e Calabria, i manicomi sono stati sostituiti dalle case di cura, per chi se le può permettere», racconta Andrea Filippi, psichiatra del Policlinico Umberto I di Roma e responsabile sindacale della Cgil, che continua: «In queste Rsa le persone con disagio mentale vengono ricoverate per lunghi periodi sotto la sorveglianza di un medico e tre infermieri ogni quaranta pazienti», racconta lo psichiatra che al Policlinico si trova spesso a curare le crisi acute dei pazienti: «Una volta dimessi non c’è modo di proseguire un percorso di cura, perché sui territori mancano i servizi». Per chi se lo può permettere c’è il privato convenzionato: vuol dire che generalmente la Regione copre metà della retta in Rsa, che complessivamente si aggira attorno ai 2.500 euro. Per chi non se lo può permettere, c’è solo il sacrificio della famiglia, sperando che la situazione non precipiti.