Politica
I sette peccati capitali del turismo: vale 100 miliardi ma spazza via tutte le regole
Dopo il Covid l’Italia è di nuovo invasa dai visitatori, con meno italiani e più stranieri. Ma le città d’arte soffocano, le norme sono inapplicabili e le restrizioni agli affitti brevi non arrivano. Tra inquinamento, evasione e lavoro nero il viaggio è da incubo
Inquina. È in prima linea nell’evasione fiscale. Applica condizioni di lavoro da settore tessile nell’Inghilterra di fine Settecento. Ha regole a iosa ma i controlli sono quasi impossibili. Chiede sussidi e occupa sempre più gli spazi pubblici. Vive di concessioni, come quelle dei lidi o dei taxi, che si tramandano per ius sanguinis. Sta snaturando le città d’arte con il fenomeno degli affitti brevi e con una pressione di visitatori insostenibile.
I sette peccati capitali del turismo sono uguali nel mondo. In Italia, sono un po’ più gravi perché bisogna aggiungere la fragilità del sistema trasporti-infrastrutture, le condizioni climatiche e persino il dissesto idrogeologico. Sotto questo titolo possono rientrare l’alluvione in Emilia-Romagna di questa primavera, a ridosso dell’apertura delle spiagge in riviera, l’incendio di un condizionatore o di una fotocopiatrice che ha bloccato l’aeroporto di Catania e l’ondata di calore sahariana.
Eppure, dopo gli anni orribili della pandemia che hanno fatto saltare tutti i parametri di settore, il turismo ha mostrato la sua capacità di ripresa e resilienza. E se il cliente o il residente non sono sempre soddisfatti, affari loro. I serbatoi delle Americhe, dell’India e della Cina sono ben lontani dall’essere sfruttati secondo le potenzialità.
In un’Italia che perde peso nell’industria e dell’innovazione tecnologica da ben prima del Covid-19, il turismo si conferma un pilastro del prodotto interno lordo con 100 miliardi di euro circa nel 2022 pari a poco più del 5 per cento rispetto ai 1.909 miliardi del pil totale 2022. Per dare un’idea, è lo stesso peso del comparto costruzioni ed è un quarto dei 400 miliardi che porta a casa l’intero settore industriale.
Il rilancio dopo le chiusure del 2020 è stato disordinato, da corsa all’oro della California, e la stagione estiva si sta chiudendo con un bilancio altalenante. In sintesi, i visitatori stranieri hanno compensato il disamoramento degli italiani costretti sulla difensiva dalla crisi e dai prezzi impazziti. Ma già parlare di stagione è anacronistico. Il nuovo mantra è appunto la destagionalizzazione con le giunte comunali e regionali che sempre più si orientano verso i grandi eventi per dodici mesi all’anno. Il nuovo tsunami ha creato, soprattutto ai sindaci, un caso clamoroso di falsa coscienza. Da un lato, benedette siano le orde che puntellano l’economia cittadina pagando la divisione in due dei toast sul lago di Como, il servizio torta a Palermo e tre pizze a 63 euro a Genova. Dall’altro, ci sono i datori di lavoro dei sindaci ossia gli elettori, sempre più imbestialiti da mangifici e movide.
Fermare il maremoto che stravolge i centri urbani sembra impossibile. Un esempio è Milano che solo vent’anni fa nessuno avrebbe mai definito una città turistica e che nel 2022 ha totalizzato 6,7 milioni di presenze con un +33 per cento (871 mila unità) nel luglio 2023 rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Fra settimane della moda, del design, del beauty, del wine, si dovesse mai usare l’italiano, il capoluogo lombardo è diventato un riferimento persino per la capitale che ha 911 siti culturali contro i 524 della città governata da Beppe Sala.
Roma oggi ha un assessorato ai grandi eventi, sport e turismo guidato da Alessandro Onorato, 41 anni, imprenditore della ristorazione che nei mesi scorsi si è detto prudente sul giro di vite alle licenze varato dal primo cittadino di Firenze Dario Nardella. Per la capitale ancora in caccia dell’Expo 2030, quindici anni dopo l’esposizione milanese, è stato un anno ottimo. Il record del 2019 è stato superato con +14,3 per cento di arrivi e + 9 per cento di presenze, secondo l’ente del turismo regionale (Ebtl). Il valore aggiunto punta a quota 10 miliardi di euro, quasi un decimo del pil turistico nazionale. Ad agosto l’aeroporto di Fiumicino ha mosso 4,2 milioni di passeggeri (+30 per cento sul 2022). L’esordio del Pantheon a pagamento ha fruttato 280 mila visitatori mentre la Ryder cup di golf da poco conclusa ha portato prenotazioni per 70 mila stanze.
Ma il saldo è in chiaroscuro. Sul fronte del passivo ci sono i deficienti che imitano Anita Ekberg e il suo bagno dentro la fontana di Trevi. C’è l’accaparramento dei biglietti del Colosseo attraverso i bot che imitano gli acquirenti reali per consentire a chi li manovra di rivendere gli 11 mila biglietti quotidiani sul mercato del second ticketing a prezzi maggiorati. Ci sono le file di due ore ai taxi della stazione Termini denunciate dal presidente di Federalberghi Bernabò Bocca e le risse con gli Ncc a Fiumicino. Ci sono le metropolitane a singhiozzo, l’Atac e l’Ama in crisi, il traffico impazzito. Soprattutto sono stati censiti 12 mila b&b abusivi oltre alle 35 mila strutture dedicate agli affitti brevi. L’evasione della tassa di soggiorno è stimata fra i 20 e i 40 milioni di euro.
Dal grande al piccolo Venezia, che ha una concentrazione di siti superiore a Roma (258) considerando l’estensione, per la prima volta ha offerto più posti letto ai visitatori che ai residenti: 49700 contro 49300. La città lagunare sarà la prima a pagamento del mondo. A metà settembre la giunta del sindaco Luigi Brugnaro ha approvato in via sperimentale la tassa d’ingresso a partire dalla prossima primavera. Anche grazie a questo provvedimento, due giorni dopo l’Unesco ha votato contro l’inserimento di Venezia nella lista nera dei siti patrimonio dell’umanità a rischio. Resta peraltro da vedere se la tassa inciderà sulla limitazione degli accessi o se sarà soltanto una fonte di reddito in più per Ca’ Farsetti.
Il boom più inatteso si è verificato a Napoli tanto che il giornale francese Le Monde, con romanticismo discutibile, ha rimpianto i bei giorni in cui i Quartieri spagnoli erano il regno di contrabbandieri e prostitute anziché dei pellegrini in visita a Largo Maradona bardati di maglia azzurra con scudetto tricolore.
«Napoli teme di diventare una seconda Barcellona», ha titolato il giornale francese citando il caso della capitale catalana che per prima in Europa ha affrontato il tema del contingentamento delle licenze per gli affitti brevi e per gli esercizi commerciali, otto anni fa con Ada Colau sindaca. L’esempio della socialista spagnola è stato seguito dalla collega socialista parigina Anne Hidalgo che nel 2019 ha fatto causa ad Airbnb chiedendo 12 milioni di euro. En passant, è una cifra non proprio angosciante per il colosso fondato da Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk. Airbnb ha chiuso il 2022 con 6,6 milioni di annunci attivi e utili netti a quota 1,9 miliardi di dollari.
Ma nemmeno a Chesky piace perdere quote di mercato perché, dopo Barcellona e Parigi, anche Amsterdam, Berlino e Londra hanno introdotto limitazioni al numero di notti l’anno per non essere considerati struttura alberghiera, con le tasse e i controlli che ciò comporta. Ultima è arrivata New York, dove il 5 settembre è entrata in vigore la Local law 18 che stabilisce limitazioni severe sugli affitti brevi sia per le piattaforme sia nei confronti degli utilizzatori. Nell’intervallo tra la proposta di legge, annunciata a gennaio del 2022, e la sua applicazione venti mesi dopo la Grande Mela ha visto scendere i suoi annunci attivi a 7 mila, meno che a Napoli.
È difficile dire se l’opposizione dei sindaci, alla lunga, creerà un effetto diga. Ma una diga serve. Secondo il rapporto Ue “Consumo e ambiente”, il turismo è la quarta causa di produzione di Co2. Secondo il Wttc (World travel and tourism), un forum di imprenditori che coopera con i governi, il settore è responsabile di una quota fra l’8 e il 10 per cento della produzione globale di anidride carbonica. In Giappone hanno coniato il termine Kanko Kogai (inquinamento turistico). Nella lingua dei viaggiatori, è semplicemente Overtourism.
A livello di governo centrale italiano la riforma promessa non c’è ancora. A giugno una prima bozza di disegno di legge della ministra del Turismo Daniela Santanchè, impiombata dalle inchieste giudiziarie sulle sue società, è stata ritirata fra le critiche. La seconda bozza è stata proposta in senso più restrittivo verso gli affitti brevi e con il no alla cedolare secca del 21 per cento. «Noi non siamo contro la proprietà privata ma prima c’era un far west che gli amministratori non hanno contrastato», ha replicato la ministra a Sala che l’accusava di non avere fatto nulla. Le critiche del sindaco, e di tanti altri politici locali schiacciati dalle invasioni barbariche, non sono rimaste isolate perché la regolamentazione del turismo è il modo ideale per farsi nemici, dovunque si mettano le mani.
Confedilizia, il sindacato dei padroni di casa, insieme ad altre dieci organizzazioni di categoria, ha accusato il ddl sul turismo di ledere in modo incostituzionale il diritto di proprietà e di «contrastare la locazione di abitazioni private attraverso l’introduzione di un numero ingiustificato di divieti, limitazioni, requisiti e obblighi, alcuni dei quali di impossibile applicazione».
Per motivi opposti il testo Santanchè è stato accolto con favore da parte di Federalberghi, che vede negli affitti brevi il nemico numero uno. Ma mentre gli squadroni di Airbnb, Booking, Expedia procedono compatti, in Italia si vive di spaccature corporative tra associazioni aderenti alla Confindustria (Federturismo), alla Confcommercio (Fipe) e decine di altre sigle indipendenti.
Fra gli strumenti disponibili a sostegno del settore ci sarebbe l’ente del turismo Enit, carrozzone per antonomasia che nel lontano 2014 Matteo Renzi aveva messo nella lista delle rottamazioni.
A novembre 2022 Santanchè ha affidato l’Enit all’amica Ivana Jelinic, ex numero uno di Fiavet, la federazione delle agenzie di viaggio messe in crisi dal fai da te online disponibile sulle piattaforme. Per adesso Enit si è sentita nominare per la campagna da 9 milioni di euro Open to Meraviglia, contestata urbi et orbi, e per l’accordo con WeChat, una sorta di WhatsApp cinese, finalizzato ad aumentare le presenze dalla Repubblica popolare, abitata da 1,4 miliardi di persone che solo in piccola parte hanno scoperto le gioie del turismo. Per gli operatori sarà una gioia accoglierle. Per tutti gli altri è l’incubo assoluto.