Visita alla centrale giapponese due anni dopo l'incidente. Per scoprire che il pericolo è in agguato. E ci vorranno decenni prima che sia messa in sicurezza
Takeshi Takahashi, 52 anni, è un buon uomo. Lo si vede da come ascolta con attenzione le domande, anche le più insidiose, e da come ti guarda negli occhi, cosa che i giapponesi fanno raramente. Forse sarebbe anche restato più a lungo a farsi crocifiggere da una banda di giornalisti stranieri venuti fino a qui a Fukushima, in quella che ormai chiamamo la centrale "colabrodo". Ma Takahashi è anche il direttore di questa maledetta centrale, in parte ancora sepolta sotto le macerie ma ancora viva e radioattiva, e ha altre cose da fare, come gli ricordano i suoi uomini. Takahashi sarà anche una brava persona, ma non è un eroe, come il suo predecessore Masao Yoshida, quello che dirigeva la centrale al momento della catastrofe e che (assieme all'ex premier Naoto Kan, costretto pochi mesi dopo alle dimissioni dalla lobby nucleare) ha probabilmente salvato il Giappone ed il mondo da un'apocalisse nucleare di proporzioni ben maggiori di quella che, almeno per ora, sembra aver provocato Fukushima (11 marzo 2011, centrale pesantemente danneggiata in seguito a un terremoto seguito da un maremoto, almeno 15 mila morti e copiosa fuoriuscita di materiale radioattivo).
A differenza di Yoshida, che ci mise una pezza facendo di testa sua, disobbedendo a ordini superiori quanto idioti (tipo quello di sospendere il pompaggio di acqua dal mare, che avrebbe danneggiato per sempre gli impianti), Takahashi è un funzionario esemplare, e gli ordini li segue. Così dopo qualche minuto se ne va, lasciandoci a una visita "bendata", più che guidata (continuamente disturbati e ammoniti dai funzionari della Tepco, la società che gestisce l'impianto, che con la scusa di proteggerci hanno impedito quasiasi tipo di osservazione) con la netta impressione che neance lui sappia bene da che parte girarsi. Qui nessuno sembra infatti ancora aver ben capito cosa sia successo, cosa stia succedendo e soprattutto cosa possa succedere prima che questa maledetta centrale venga sigillata e resa innocua, speriamo, sotto una megacolata di cemento. Una cosa però è certa: non è una questione di giorni ma di decenni. Il Giappone e il mondo intero resteranno ancora sulle "spine" per almeno 30-40 anni. Un incubo che verrà moltiplicato, se il governo manterrà la promessa di far ripartire gli altri 50 reattori, che per ora, tranne due, restano ancora spenti.
Peggio, dunque, di Cernobyl, almeno per quanto riguarda i tempi della "messa in sicurezza", dello smantellamento, della decontaminazione e del pericolo di nuove criticità. Perché l'emergenza, a Fukushima, è tutt'altro che finita. Anzi, per dirla con un operaio che abbiamo incontrato nella toilette (l'unico posto in cui gli uomini della Tepco ci hanno lasciato soli) e al quale, senza farci troppo notare, abbiamo dato appuntamento poi in un bar, a turno finito: «Facciamo come i gamberi, un passo avanti e tre indietro».
Il passo avanti, quello che ha probabilmente suggerito ai dirigenti della Tepco di organizzare la visita guidata alla centrale, è il pressoché definitivo completamento della gabbia di acciaio (54 metri), che appoggiata all'edificio del reattore numero 4 (l'unico a non avere subito la fusione del nocciolo in quanto all'epoca inattivo) dovrebbe garantirne la stabilità in caso di nuove scosse e consentire la rimozione in sicurezza delle 1.533 barre di combustibile che tutt'ora galleggiano, in condizioni per lo meno precarie, sul tetto. Un'operazione che dovrà essere ripetuta per gli altri reattori (due dei quali, il numero 2 ed il numero 3, ancora inavvicinabili per via della temperatura e delle altissime radiazioni) e che doveva essere già stata compiuta da un pezzo. Chiediamo di avvicinarci al reattore ma il funzionario Nakayama, al quale siamo affidati, ha una crisi di nervi e ci ordina strattonandoci (evento in Giappone considerato di estrema maleducazione) di rientrare sull'autobus. Nella sala riunioni il direttore Takahashi dice, ma sembra il primo a non crederci, che la rimozione delle barre dovrebbe iniziare a novembre e durare un anno. Sempre che la terra se ne stia tranquilla e non decida di dare un'altra lezione ai signori che hanno fatto costruire buona parte delle centrali giapponesi sopra le faglie più ballerine del pianeta.
«Novembre? Ma figurarsi», esordisce Ken, l'operaio che ci ha aspettato in una bettola frequentata dai suoi colleghi, tutti contenti, ora che la credibilità dei media nazionali è in picchiata, di parlare con i giornalisti stranieri. «Lo sanno tutti, alla centrale, che il trasferimento delle barre richiederà anni e anni. Perché pensate che ci abbiano fatto costruire una struttura del genere? Per resistere un anno? In quella piscina ci sono armi letali. Ogni barra è come una bomba atomica. E nessuno , ma proprio nessuno, sa come sbarazzarsene».
Gli operai spiegano poi che in realtà, di piscine, in cima al reattore, ce n'è un'altra, più piccola e ancora meno stabile: «Dentro c'è materiale fissile di vario tipo, meno pericoloso forse delle barre di carburante, ma sempre altamente radioattivo. Sono circa 35 tonnellate di materiale che possono fuoriuscire in qualsiasi momento».
E l'acqua, che ci dite dell'acqua? Sappiamo che ci sono perdite continue, lo ammettono anche alla Tepco ufficialmente, ma continuano a sostenere che sono «minime» (Takahashi ha parlato di «poche decine di litri») e che comunque la situazione è sotto controllo. Dicono che hanno ampliato la capacità di stoccaggio (fino a 300 mila tonnellate), che la raddoppieranno ulteriormente (fino a 600 mila, entro l'anno prossimo) e che assolutamente non la scaricheranno in mare come hanno già fatto in passato. E dicono anche che l'acqua viene decontaminata al 100 per cento, che il sistema messo a punto con la società francese Areva funziona perfettamente e che, in base alle analisi condotte, l'acqua risulta essere purissima: zero bequerel/kilo (l'unità di misura per il cesio e altri isotopi). Insomma, si potrebbe bere. Almeno a questo possiamo, dobbiamo credere? «Neanche a questo», rispondono all'unisono gli operai, ridendo di fronte alla nostra apparente ingenuità. «Non bisogna credere una parola di quello che dicono quei signori. Loro non pensano solo alla messa in sicurezza, pensano ancora a come risparmiare, come recuperare, come nascondere le loro magagne e come continuare a scaricare sulla collettività i costi di un'operazione che sta diventando di proporzioni gigantesche. Noi comunque, che siamo già molto contaminati, quell'acqua non la berremmo di certo e siamo sicuri che qualche schifezza ci resti dentro. Il sistema di purificazione funziona un giorno sì e un giorno no, e con i francesi le cose non vanno per niente bene. È solo una finta. In reatà se ne dicono di tutti i colori. Loro vogliono solo soldi su soldi, e il governo giapponese paga, per non fare brutte figure e tenerseli buoni».
Quanto alle analisi, ecco cosa ci racconta la collega giapponese Mako Oshidori che da due anni fa le pulci alla Tepco e in generale al cosiddetto genpatsu-mura (il villaggio nucleare): «Sono affidate a una società esterna, lontanissima da qui, di Osaka. Si chiama Kankyo Sogo Technos, usata da molti enti pubblici. Peccato che le sue azioni siano al 100 per cento in mano alla Kepco, la società cugina della Tepco». Abbiamo chiesto di avere una bottiglia d'acqua "purificata" per farla analizzare: niente da fare. E del resto l'operazione non è stata mai consentita a nessuna organizzazione indipendente. Non si capisce come sfugga, al "villaggio nucleare", che effettuare consulenze e rilevamenti in casa non aumenta certo la credibilità, già bassissima, di un settore che tuttavia non sembra avere nessuna intenzione di arrendersi. E che aspetta le elezioni suppletive di luglio (dovrebbero garantire la maggioranza assoluta alla coalizione di governo di destra anche alla Camera Alta) per riaccendere i reattori. E con essi, l'incubo di un nuovo incidente.
«Qui dicono che tutto è sotto controllo, ci prendono per matte, per paranoiche», racconta Kaori Suzuki, portavoce di un gruppo di «mamme preoccupate» che ha organizzato a Iwaki, a pochi chilomteri dalla centrale, un centro di informazione autogestito dove è possibile far controllare ogni prodotto e addirittura effettuare esami sanitari approfonditi a prezzi irrisori rispetto a quelli offerti dagli ospedali e da altri enti pubblici. «Ma la verità», continua Suzuki, «è che abbiamo paura. Anzi, siamo terrorizzate. Noi viviamo accanto al mare, abbiamo sempre mangiato alghe e pesce. Ora sono quasi tre anni che non lo tocchiamo. E non basta. È tutto il cibo che ci fa paura. Non avete idea di cosa significhi, per una madre, passare le giornate a pensare se quel cartone di latte, quella banana, quelle uova che hai appena comprato al supermercato potranno essere un giorno responsabili del cancro di tuo figlio».