
E per la prima volta parlano con due giornalisti. Siamo in un posto di polizia, è sera inoltrata. Quando la porta si apre, un poliziotto tiene per un braccio un uomo con la barba e la benda sugli occhi. Guida lentamente i suoi passi. Tutto ciò che si sente nella stanza è l’avanzare incerto del prigioniero. Lo hanno catturarto mentre cercava di piazzare una bomba sotto l’automobile di un leader politico locale a pochi chilometri da Derik, al confine tra Siria, Turchia e Iraq.
I curdi chiamano Rojava la striscia siriana che corre parallela alla Turchia. E da due anni cercano di difenderla militarmente sia dagli attacchi di Bashar al-Assad, sia da quelli dei fanatici miliziani del Califfo che anche in quest’area hanno prodotto una massiccia offensiva, conquistato villaggi e città con la stessa velocità con cui sono avanzati in Iraq. E adesso controllano buona parte delle vie di comunicazione al confine tra i due Stati, permettendo il travaso di armi e guerriglieri. Un mese fa, a Qamishli, un uomo si è fatto esplodere in pieno centro in un attentato suicida. E al fronte, a due chilometri dal primo checkpoint dell’Is, ogni macchina viene controllata per timore di altri atti terroristici. I curdi, da queste parti, combattono una doppia guerra: quella convenzionale, di trincea e armi leggere in prima linea, e quella interna, alimentata dal pericolo dei tanti arabi sunniti presenti nel nord della Siria. Tra loro possono esserci fiancheggiatori, collaborazionisti e soldati dell’Is. I cinque prigionieri che la polizia curda permette di intervistare appartengono a quest’ultima categorie.
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Ora il prigioniero è seduto di fronte a noi. I poliziotti lo hanno bendato per evitare che possa vedere le facce del nostro interprete e di altri agenti. «Le cose qui cambiano rapidamente», dice Shorash Khane, il dirigente di polizia che ha autorizzato i colloqui. «Se tra un mese l’Is dovesse conquistare questa parte del Paese non voglio che vadano a cercarli».
Non abbiamo limitazioni nelle domande, salvo quelle che possano avere a che fare con dettagli sulle indagini in corso. Il miliziano è un ragazzo di quasi 30 anni, barba, tuta e maglietta blu. È il primo e crede di essere l’unico a parlare con noi. Racconta la sua storia: la bomba da piazzare, la cattura, e quelle 50 mila lire siriane che avrebbe dovuto ricevere dall’organizzazione in caso di successo, l’equivalente di 327 dollari: «L’operazione viene considerata valida quando, per esempio, si arreca danno alla macchina o quando una persona viene uccisa oppure ferita. Le armi ce le fornisce al Qaeda». Dichiarazione sorprendente visto che ufficialmente al Qaeda e Is sono nemici. Però al fronte si possono creare alleanze insospettabili tra chi comunque condivide l’idea del jihad.
Ma chi sono? Cosa vogliono? Contro chi combattono questi uomini? Ce lo diranno senza problemi. Con la stessa intensa asprezza nel tono: «Daesh (nome arabo dello Stato islamico) vuole creare uno Stato tra due nazioni, Siria e Iraq. Uno stato islamico che osserva la legge islamica. È questo il progetto. I cristiani sono dei miscredenti ed è per questo che devono convertirsi all’islam. Se non si convertono devono pagare una tassa per poter mantenere la propria fede. Chi non si converte o non paga, viene giustiziato. Anche i curdi sono dei “sahawat”, dei miscredenti, e per questo devono essere combattuti». L’uomo dice di non appartenere direttamente a Is, ma di aver piazzato bombe solo sotto ricatto.
Chi invece dichiara una piena adesione all’organizzazione è il secondo prigioniero. Capelli rasati quasi a zero, barba corta e corporatura massiccia. È anche l’unico a definirsi un combattente: «Per più di quattro mesi ho militato nell’Esercito Siriano Libero (la prima forza armata di opposizione a Bashar al-Assad nel 2011, ndr). Poi sono stato catturato dalle milizie dell’Is e mi hanno costretto ad arruolarmi sotto di loro. Se non l’avessi fatto mi avrebbero tagliato la testa».
Racconta senza remore la carriera fatta in pochi mesi nell’esercito di Abu Bakr al-Baghdadi: «Ero stato nominato capo di una squadra ed ero responsabile di quindici persone e quattro macchine. Poi mi hanno detto che mi avrebbero elevato di grado, che sarei diventato responsabile di mezzo battaglione. Così è stato». Conferma ciò che alcuni miliziani che fanno parte dell’ala laica di opposizione a Bashar Assad e combattono contro l’Is ci hanno ripetuto in altre interviste: il “califfato” dà droghe ai propri uomini quando li manda in battaglia: «Ci danno delle pillole allucinogene per attaccare i nemici senza provare paura: Baltan, Capticol, Zolam, Briximol e Hashish».
Sembra molto informato anche sulle dinamiche interne dell’organizzazione. Forse per la carriera che ha fatto, la conosce alla perfezione: «I combattenti hanno nazionalità siriana, saudita, irachena, libica, afghana e persino curda». Conferma l’arrivo di miliziani fondamentalisti dall’Europa che formano le brigate straniere, come quel gruppo di inglesi definiti “Beatles” che hanno tagliato la testa al giornalista americano John Foley e a cui le forze speciali britanniche stanno dando ora la caccia: «Ne ho visti due che venivano dalla Germania, uno dalla Spagna, uno anche dall’Italia, ma non ho mai avuto rapporti personali con loro perché li chiamano i “muhajirin”, gli immigrati, e non ci era permesso frequentarli da vicino».
L’atteggiamento dei prigionieri che abbiamo di fronte è molto diverso, e questo in parte allontana una preoccupazione che abbiamo fin dall’inizio: intervistare un uomo sotto coercizione può essere fuorviante. Il rischio di una regia (in questo caso dei curdi), o di alimentare la propaganda è alto. Ma i cinque non sembrano indottrinati esprimono posizioni differenti, non tutti sposano le tesi dell’Is. Alcuni dicono di aver collaborato con la famigerata organizzazione solo per soldi: «Ho ucciso solo per necessità, signore. Perché a casa non ho neanche da mangiare, non ho un lavoro. Ho solo la pietà di Allah».
Il terzo prigioniero è accusato di aver piazzato una bomba, ha un atteggiamento dimesso e per tutta la durata dell’intervista tiene la testa bassa. Capelli ricci e trasandati, barba incolta, l’immagine che vuole far passare di sé è quella di un disgraziato: «Ho moglie e quattro figli. Giuro che l’ho fatto solo per soldi». Difficile capire quanti di questi uomini combattano per necessità, quanti sotto minaccia, e quanti invece condividano fino in fondo il folle progetto del califfato islamico. Per tutti però c’è una dottrina, un sistema di valori di riferimento, che ogni combattente deve seguire quando imbraccia le armi.
Il quarto prigioniero viene presentato dalla polizia curda come un “ideologo”. «Insegnava in una madrasa di Damasco», dice Shorash Khane mentre un altro poliziotto porta l’uomo dentro la stanza. «È il più pericoloso perché veniva usato dall’Is per fare il lavaggio del cervello agli aspiranti combattenti». Anche da com’è vestito si capisce che ha un ruolo diverso. Barba folta e curata, e tunica lunga fino ai piedi.
Si difende: «Mi chiamo Ayman Khattat e non ho mai insegnato l’odio durante le mie lezioni. Solo l’islam. Poi se qualcuno ha travisato non è colpa mia. Avevo dai 10 ai 15 allievi e insegnavo solo i principi dell’islam». Nega il ruolo di indottrinamento per conto dell’Is, ma ammette di aver preso dei soldi per fornire informazioni all’organizzazione: «Non ho mai messo bombe, il mio ruolo era intercettare notizie utili. Per questo venivo pagato dalle 20 alle 30 mila lire al mese (dai 130 ai 180 dollari). Mi pagavano anche nei mesi in cui non davo notizie». Anche lui dice di aver ricevuto minacce: «Mi hanno detto che se non avessi collaborato avrebbero ucciso me e tutta la mia famiglia».
Non sa che dopo di lui la polizia ci farà incontrare uno dei suoi allievi. Né l’allievo sa che prima di lui abbiamo parlato col maestro. «Mi chiamo Imed Mohamed, ho 28 anni e conosco molto bene Ayman Khattat, era un mio insegnante. Ci preparava nelle operazioni terroristiche. Le sue lezioni all’inizio erano sull’amore per l’islam, sulla fratellanza e cose di questo genere. Dopo ha cominciato a definirci “l’immagine del jihad” e a dirci che questa vita è vana ed è meglio abbandonarla. E che per raggiungere il paradiso si deve necessariamente uccidere. Se uccidi un cristiano vai direttamente in paradiso. Se non lo fai sei considerato un peccatore. Se non lo fai, oltre a commettere un peccato, verrai torturato e finirai all’inferno, avrai una vita misera nell’aldilà e porterai le pene delle altre persone che non hanno eseguito quest’ordine insieme a te. Era così che ci facevano il lavaggio del cervello. Non solo a ragazzi della mia età, ma anche a giovani di 17 e di 15 anni. Dicevano loro che ormai erano uomini e gli davano delle armi».
Secondo la polizia curda, anche le donne possono avere un ruolo all’interno dell’organizzazione. Anche se la concezione che questi uomini hanno del genere femminile lascerebbe intendere il contrario. Continua Imed: «La missione della donna è allevare i figli e cucinare. Non può uscire di casa, lei e le sue figlie. Ci dicevano gli insegnanti che se proprio deve farlo, deve coprirsi interamente. Se fuoriesce anche solo un dito, le sarà tagliato. Se la donna dissente dal marito o dai parenti deve essere uccisa, su questo non si discute. È obbligatorio seguire queste regole perché sennò tu, uomo, sei considerato un traditore e devi essere ucciso insieme alla tua famiglia».
Parla a ruota libera, racconta ogni dettaglio del credo che gli è stato inculcato dal suo maestro, ma soprattutto insiste a rimarcare il suo pentimento: «Mi creda, signore, se solo potessi uscire e avvisare la gente, io lo farei. Direi a tutti che questi approfittano della nostra debolezza, della nostra ignoranza in religione, dei nostri conflitti. Sono pentito, ma adesso che mi sono fatto un esame di coscienza e ho capito molte cose, su cos’è giusto e cosa è sbagliato, non tornerò mai più su questa strada. Anche se verrò ucciso».