La crisi migratoria rappresenta un vero e proprio banco di prova per il Vecchio continente, «che sarà repubblicano, inclusivo, federalista», o verrà schiacciato dalle sue stesse spinte centrifughe. A colloquio con la filosofa ungherese

Agnes Heller
L'Europa è a un bivio, sostiene Ágnes Heller. Ed è urgente che decida in che direzione orientare la propria rotta: sulla strada dell'universalismo e dell'inclusione, o su quella opposta dei confini, della paura e dell'ostilità nazionalista. Nata a Budapest nel 1929, espulsa una prima volta dal partito comunista ungherese nel 1949, allieva e collaboratrice del filosofo Lukács, Ágnes Heller è tra i più autorevoli intellettuali contemporanei.

Diffidente verso ogni assunto dogmatico, docente prima a Budapest, poi a Melbourne e infine, dal 1986, alla New York School for Social Research, dove ha ricoperto la cattedra intitolata ad Hannah Arendt, l'autrice de La filosofia radicale ha attraversato tutto il Novecento da protagonista. Studiando il rapporto tra individuo e società, con l'idea che la filosofia serva a desacralizzare il mondo, e a trasformarlo.

null
L’Europa alza i muri ma non per i capitali
14/4/2016
Lo crede anche oggi. Ma crede soprattutto che di un cambiamento, di un'apertura verso l'altro, abbia bisogno l'Unione europea, se non vuole rimanere «un'Europa burocratica, senz'anima». L'occasione per farlo è offerta proprio da quelle che oggi appaiono le sfide più difficili: la “crisi dei rifugiati” e la “minaccia del terrorismo”.

Se quest'ultima ci fornisce il pretesto per rivendicare «la nostra libertà», la crisi migratoria rappresenta un vero e proprio banco di prova per il Vecchio continente, «che sarà repubblicano, inclusivo, federalista», o verrà schiacciato dalle sue stesse spinte centrifughe, sostiene la filosofa ungherese. L'abbiamo incontrata a Roma, dove ha tenuto una lectio magistralis su “L'identità europea”.

Migranti
I muri non fermano i migranti: le nuove rotte sono via mare
12/5/2016
Professoressa Heller, di fronte alla cosiddetta “crisi dei rifugiati”, l'Unione europea sembra smarrita, capace soltanto di erigere muri. C'è chi vi legge una contraddizione tra l'ideale di un'Europa unita, inclusiva e solidale e la realtà degli Stati-nazione, ancorati ai loro confini. Cosa ne pensa?
La “crisi dei rifugiati” riflette uno dei problemi principali dell'Europa contemporanea, e rimanda a una contraddizione storica, inaugurata nel diciottesimo secolo e poi maturata nei secoli successivi. In quel periodo, si affermavano con forza i valori dell'universalismo, sulla base dell'idea che tutti gli uomini nascono liberi e uguali e sono dotati di una coscienza libera. Si tratta di un'idea che viene espressa in modo esemplare nel Flauto Magico di Mozart, quando il personaggio Sarastro afferma di essere un uomo, prima ancora che un principe. Ma nello stesso periodo, proprio in risposta alla rivoluzione francese e ai valori dell'universalismo, si viene affermando anche l'idea di nazione. Non è un caso che il filosofo tedesco Fichte tenga i suoi Discorsi alla nazione tedesca proprio nei primi anni dell'Ottocento: è la prima volta in cui viene formulato il concetto di nazione, e non sarà certo l'ultima. Da allora, la contraddizione tra universalismo dei valori da una parte e nazione dall'altra ha assunto forme diverse, ma non è mai venuta meno.

Intende dire che scontiamo ancora oggi quella contraddizione? E che forme ha assunto, nel corso dei secoli?
È così: la contraddizione vige ancora oggi, perché non c'è stata una “vittoria” netta di una tendenza rispetto all'altra. Nel diciannovesimo secolo, per esempio, in Europa abbiamo assistito a due diversi sviluppi ideologici. Uno è stato l'internazionalismo proletario, l'idea della solidarietà tra i lavoratori, tutti ugualmente sfruttati, l'altro era il cosmopolitismo borghese, l'idea che, al di là delle differenze di nazionalità, esistesse una classe di uomini d'affari legati da interessi reciproci, anche se a volte in competizione. La prima guerra mondiale ha segnato una reazione a quegli sviluppi. Può essere letta proprio come una guerra delle nazioni contro le idee dell'internazionalismo proletario e del cosmopolitismo borghese. In quell'occasione ha senz'altro vinto il nazionalismo, tanto che ancora oggi rimane un fattore di identificazione fortissimo: la principale identità degli europei resta quella nazionale. L'Unione europea, che ha attinto all'altra tradizione, quella dell'universalismo, è stata edificata con l'obiettivo di favorire la solidarietà tra le nazioni, ma il processo di costruzione non è stato accompagnato dall'emergere di una coscienza europea. L'Europa rimane un progetto burocratico, senz'anima.

Lei ha sostenuto che, oggi, questa contraddizione tra universalismo dei valori e vincoli dello Stato-nazione si riflette in quella tra diritti umani e diritti di cittadinanza. Ci spiega meglio?
Oltre a quelle elencate, la storia europea è stata profondamente segnata da due tradizioni: una è quella che definisco del “bonapartismo”. La inaugura Napoleone e arriva fino a Mussolini e oltre, e rimanda all'idea di un uomo forte, che tutto faccia e tutto risolva, un uomo convinto di incarnare la verità, lo Stato, la società, e che non si fa scrupoli di ricorrere al populismo pur rappresentando interessi molto parziali, oligarchici. Solitamente, questa tradizione conduce alla guerra, al conflitto, ai dissidi interni ed esterni, mentre quella opposta, del repubblicanesimo e della democrazia liberale, evita la guerra, per quanto possibile. L'Unione europea ha scelto molto chiaramente questa seconda strada, ma il repubblicanesimo porta in sé una contraddizione fondamentale: la Costituzione francese parla dei “droits de l'homme e du citoyen”, dei diritti dell'uomo e del cittadino, come fossero concetti identici, ma non lo sono. La tradizione repubblicana sconta questa contraddizione tra i diritti dell'uomo e quelli del cittadino, che possono entrare in conflitto.

null
Il patto con la Turchia fallimento d’Europa
25/3/2016
La cosiddetta “crisi dei rifugiati” è dunque figlia di questa contraddizione?
Direi proprio di sì. Da una parte i rifugiati e i migranti in alcuni casi non soddisfano i criteri per veder riconosciuti formalmente i diritti di cittadinanza, ma dall'altra l'Europa ha comunque il dovere di difendere una sua invenzione, quella dei diritti umani universali. Inoltre, così come ha “inventato” i diritti universali, l'Europa ha anche inventato i diritti dei cittadini, e in qualche modo ha sempre incoraggiato l'idea che siano i cittadini a decidere cosa deve accadere in un dato Paese. Qualcuno dunque potrebbe sostenere che i cittadini hanno il diritto di negare agli stranieri di entrare nel proprio Paese, per esempio per ragioni di equilibrio di welfare, ma se assumiamo la prospettiva dei diritti umani universali, non solo è sbagliato negar loro l'ingresso, ma è doveroso accoglierli. La contraddizione è evidente: droits de l'homme e droits du citoyen collidono, in questo caso. L'Europa, da questo punto di vista, è a un bivio. E dovrebbe decidere in che direzione procedere.

I politici nazionalisti e i demagoghi di destra sostengono che i migranti minacciano l'Unione europea. Lei invece sembra ritenere che la vera minaccia sia il nazionalismo...
Il nazionalismo non mi piace affatto, ma rimane anch'esso un valore europeo. Con la creazione dell'Unione europea era stato accantonato, in favore della solidarietà, ma ancora non è chiaro quale dei due orientamenti prevarrà in Europa. Molto dipende dai singoli governi, e dai singoli cittadini: se intendono promuovere la solidarietà o l'ostilità nazionalista, l'Europa federale, inclusiva, repubblicana, o quella delle spinte centrifughe. Ma molto dipende anche da cosa si intende per nazionalismo. Non esiste un vero e proprio passato nazionale, esistono piuttosto delle mitologie del passato. Dipende dai criteri che si adottano nell'attingere al passato: ogni tradizione nazionale presenta anche aspetti positivi, come i movimenti di liberazione o per i diritti. Sarebbe bello se ci riferissimo a quelli, quando parliamo del nostro passato.

Lei ha criticato spesso il governo ungherese del primo ministro Viktor Orban, che ha definito come “bonapartista”. Ora, visto che nei periodi in cui ci si sente sotto minaccia si tende a cercare “riparo” in una governo forte, muscolare, pensa che il bonapartismo possa diffondersi, in Europa?
Nel mio Paese come in altri, il bonapartismo è un elemento reale, preoccupante. Ma non credo che nel breve termine diverrà la forza prevalente in Europa. Nel corso del tempo sono stati sviluppati antidoti efficaci a queste forme peculiari di autoritarismo. Quel che mi preoccupa veramente è la tendenza ad associare, in termini retorici, le culture “altre” con il terrorismo. Il terrorismo, va ricordato, è l'esercizio del terrore, sulla base di un'ideologia fondamentalista e totalitaria, da parte di uno Stato o di gruppi non statali. In alcuni casi, come per il cosiddetto Stato islamico, si tratta di gruppi extraeuropei, che possono scegliere di esercitare il terrore sul territorio europeo. Ma tracciare un'equivalenza tra stranieri e terroristi è ridicolo. Piuttosto, ci dovremmo chiedere perché alcuni cittadini di uno Stato europeo - come quelli che hanno colpito Parigi o Bruxelles - decidano di praticare violenza contro i loro stessi concittadini.

Gli attentati di Bruxelles hanno riaperto il dibattito sul rapporto tra libertà e sicurezza, sempre in equilibrio precario. Oggi i politici tendono a dire ai propri cittadini: «se volete essere davvero sicuri, dovete rinunciare ad alcune libertà». Ritiene che sia utile o controproducente?
Credo che ci siano due pericoli: quello del terrorismo, un pericolo minacciato, e quello della perdita o della limitazione delle libertà civili, sempre più concreto. La domanda vera è se la gente sia pronta e disposta a rinunciare a tali libertà, libertà vere, reali, per una presunta sicurezza. In Ungheria, alcune misure proposte dal governo Orban sono state respinte dalla popolazione, pur di preservare le libertà civili. Gli ungheresi in quel caso hanno capito che, perdendo le libertà civili, l'insicurezza e il pericolo sarebbero aumentati. Ritengo dunque che non sia necessario limitare le libertà civili. Più importante, è capire quali siano le vere minacce, saper distinguere tra percezioni e realtà. È più reale la minaccia terroristica o quella della crisi economica, della disoccupazione, delle nuove marginalità sociali? Non ci scordiamo che a causa di minacce concrete e reali come quella della crisi economica, in Europa in passato si è fatto appello a gente come Mussolini e Hitler. Limitare le libertà civili non riduce il pericolo del terrorismo. Anzi, è controproducente.

Vuole dire che dobbiamo continuare a rivendicare le nostre libertà?
Sì. La libertà va protetta e rivendicata, nonostante sia sempre una libertà difficile, per dirla con il filosofo Levinas. Vanno rivendicate le libertà civili e politiche, ma anche, nel senso più ampio, la libertà di compiere scelte libere, che non siano condizionate o manipolate dalla società o da forze sconosciute. È difficile esercitare questa libertà, perché soprattutto nei periodi difficili si pensa che se qualcun altro decide per noi tutto diventa più facile, perché veniamo alleggeriti del peso della responsabilità. Fare una scelta significa essere responsabili, e la responsabilità è pesante per tutti. Ma va conquistata e protetta. Soprattutto ora. Senza delegarla agli altri, tanto meno ai bonapartisti.

C'è chi sostiene che per proteggere l'identità culturale e politica di uno Stato-nazione vado limitato l'accesso ai migranti. E c'è chi invece sostiene il contrario: che ogni identità è ibrida per definizione, e che le frontiere chiuse vadano trasformate in confini aperti. Lei cosa ne pensa?
In un certo senso, c'è una parte di ragione in entrambe le posizioni. Aprendo i confini, si possono trarre benefici così come provocare danni. Il punto è comprendere cosa ci sia in gioco, e agire razionalmente. L'identità culturale di un Paese già oggi, almeno al livello della cultura alta, è totalmente globalizzata. La vera posta in gioco riguarda le “forme di vita”: come si vive tutti i giorni; come ci si comporta tra uomini e donne; il rapporto tra padri e figli; tra diritti e doveri. È nella vita ordinaria che nascono i conflitti. Da questo punto di vista, in Europa c'è una tendenza che non mi piace affatto: quando si parla di integrazione, si intende assimilazione. Chi non si assimila non è integrato, e finisce nei ghetti. In Francia o in Belgio, chi non rinuncia alla propria cultura non può essere integrato, così si dice. Mi pare sbagliato. Negli Stati Uniti, al contrario, si possono sviluppare culture parallele, basta che vengano rispettate la Costituzione e le leggi dello Stato. In Europa si pretende di più, e si dà di meno. Si tratta di assimilazione, non di integrazione.

A proposito di “forme di vita”. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando in Europa molti credevano in obiettivi come “rivoluzione” e “liberazione”, lei era un punto di riferimento, con la sua teoria sulla necessità di trasformare la vita ordinaria, prima ancora che le istituzioni politiche. Oggi, dall'utopia si è passati alla paura. Cosa è successo?
Per prima cosa mi lasci dire che la trasformazione della vita ordinaria è avvenuta, non si è trattato soltanto di un'utopia, ma dell'avverarsi di una tendenza della modernizzazione. Certo, qualcuno è rimasto deluso, qualcun altro ha pensato che la rivoluzione del '68 sia stata sconfitta, perché non tutto ciò che auspicava allora è avvenuto. Ma è normale: in ogni rivoluzione c'è sempre qualcosa di irrealizzato, e altro che invece si realizza. Quanto all'utopia, posso dire che oggi non c'è più perché, soprattutto in Europa, ha perso validità il concetto di progresso universale, un concetto che era fondamentale per quelli che possiamo considerare gli inventori della filosofia della storia, i socialisti utopisti, inclusi Marx ed Engels. Per loro, il concetto di progresso coincideva con l'idea che ogni formazione sociale progredisse rispetto alla precedente. Questa certezza, questa fiducia, oggi non c'è più. E giustamente, aggiungerei, perché in ogni trasformazione si guadagna qualcosa e si perde qualcos'altro, ma le perdite e i guadagni sono incommensurabili tra loro. Allo stesso tempo, abbiamo rinunciato anche all'idea di una società completamente giusta, non perché non sia stata mai raggiunta, ma perché abbiamo capito che non è desiderabile, visto che impedirebbe ogni sviluppo, ogni dinamismo, ogni conflitto, ogni pluralismo. Da qui, la rinuncia all'utopia.

Di fronte alla fine dell'utopia e dell'ideale della società giusta, che fare, allora?
Credo che valga il suggerimento di Voltaire, nel Candido: coltiva con cura il tuo giardino. Il nostro giardino è casa nostra, l'Europa, il mondo in cui siamo nati e in cui moriremo. Ognuno di noi ha il dovere di renderlo un po' migliore. Non è una prospettiva così brutta. Ed è senz'altro preferibile alla disillusione che nasce dalle utopie mancate.