
Dieci mesi e mezzo, tanto manca, nella rutilante epoca della politica scongelata sono un tempo biblico. E tuttavia l’inerzia favorevole sembra gonfiare le vele del consenso ai sovranisti, per quel che valgono i sondaggi. Corroborati dalla per cezione generale di un a crescit a per ora inarrestabile, spinta soprattutto dalla crisi dei migranti. Per l’Unione europea, ed è un paradosso, saranno le elezioni più politiche di sempre e contemporaneamente quelle che ne potrebbero segnare, se non la fine, almeno un drastico ridimensionamento.
L’Italia è la locomotiva della rivoluzione antisistema. Lega e Movimento 5 stelle, che si sono scambiate il testimone in vetta, viaggiano unite ben oltre il 50 per cento, ed è d a verificare se potranno tenere l’andatura alla prova complicata del governo. In Germania le difficoltà della Merkel sono interne al partito, con la minaccia esterna dell’alleato di governo, i socialdemocratici, scesi di tre punti (18,3) e insidiati, al secondo posto, dall’impetuosa salita di Alternative für Deutschland (13,6), formazione inesistente sino all’altro ieri, impasto di xenofobia e estrema destra.
Per stare sui pesi massimi, in controtendenza la Francia dove Marine Le Pen, persa la corsa all’Eliseo, è precipitata al 15 per cento, mentre il partito del presidente Emmanuel Macron assieme ai possibili alleati del centro di MoDem (Bayrou) raggiunge il 27. Ma attenzione: il governo spaventato dalla sequela di attentati e desideroso di fare incetta di voti a destra, sui migranti sta pericolosamente inseguendo il Rassemblement national, nome nuovo del Front national. E gli elettori, nella consultazione sovranazionale potrebbero scegliere di nuovo l’originale.
Ben saldo al comando l’ungherese Viktor Orbán con la maggioranza assoluta, un modello per Salvini, come se non bastasse vede crescere sul suo fronte destro Jobbik (16 per cento), e in generale è tutto il gruppo di Visegrad a tirare la volata a un possibile mutamento genetico del parlamento du Bruxelles che, causa Brexit, sarà orfano dell’Ukip di Nigel Farage, uno dei primi che accese i motori della spinta propulsiva degli anti-tutto.
L’Austria del cancelliere Kurz che minaccia di chiudere il Brennero (e ha la presidenza di turno dell’Unione), l’Olanda di Wilders e i nordici sempre più nella morsa tra “Veri finlandesi” e “Democratici svedesi” (nome usurpato per quelli che si definiscono “sinceri patrioti”) completano l’offensiva contro il Palazzo. Mentre resta da definire l’atteggiamento dei Paesi mediterranei (Italia esclusa), i più colpiti dall’ondata di profughi e dalla crisi finanziaria. In Spagna governano i socialisti, dopo lo scandalo che ha travolto i popolari, in Portogallo la sinistra è inusitatamente in forma, in Grecia uno Tsipras comunque azzoppato nel consenso, riesce a tenere una linea di galleggiamento.
Se qualunque previsione è prematura, e troppe sono le incognite di cui tenere conto, ad oggi la linea di tendenza è netta. I popolari dovrebbero confermarsi prima forza, pur con un dimagrimento che viene valutato attorno ai cento seggi. Mentre è da vedere se i socialisti riusciranno a tenere la seconda piazza minacciata dai populisti (e il 41 per cento di Matteo Renzi di quattro anni fa è l’emblema di un’epoca archiviata).
La parola chiave è cambiamento. È il desiderio della maggioranza degli europei (56 per cento, la quota italiana è più alta e si sale al 67) che vorrebbero fosse interpretato dai movimenti anti-establishment. Risulta da un sondaggio condotto per Eurobarometro da Kantar Public su 27.601 cittadini dei 28 Stati membri. Ne discendono, però, opinioni non sempre coerenti se ad esempio, il 70 per cento ritiene che essere sempre “contro” non produce benefici. E più di due terzi valuta positivamente l’appartenenza del proprio Paese alla Ue (da noi, storicamente filoeuropeisti, si precipita al 39). Quanto alle preoccupazioni, a sorpresa è la lotta al terrorismo a prendersi il primato (49 per cento), davanti alla disoccupazione giovanile (48), solo terza l’immigrazione (45), quarta la crisi economica (42). Graduatoria ribaltata in Italia, e il fatto di non aver subito gravi attentati islamisti ha una valenza, con la seguente classifica: immigrazione 66, disoccupazione 60, economia e crescita 57, terrorismo 54.
I sondaggi sono come una fotografia: fissano un oggi peraltro un po’ sfuocato. Mentre le urne della primavera prossima sono un film, azione in movimento. Nella trama sono prevedibili colpi di scena, intrecci, contraddizioni, e c’è da definire l’arco narrativo dei personaggi. Il paradosso principale sta nel fatto che i campioni dello slogan “padroni a casa propria” vorrebbero però che fosse la tanto esecrata Bruxelles a risolvere la questione dei profughi. Meglio se collocati in casa d’altri. E qui è destinato a sorgere il conflitto di interessi tra gli eventuali alleati nella Lega delle Leghe, potenziale cuneo nella consueta distinzione tra destra e sinistra. Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte hanno giocato con la matematica circa la percentuale di soddisfazione del (dis)accordo sui migranti nel recente Consiglio europeo: il 70 per cento? L’80 per cento?
Per occultare la realtà di fatto di una bocciatura della loro politica muscolare, ad opera soprattutto dei potenziali alleati. È stato il gruppo di Visegrad, soprattutto, ad annacquare la sbandierata condivisione del problema, accettando una ripartizione delle quote solo su base volontaria, senza nessuna obbligo e rimandando la palla nel campo delle nazioni di primo sbarco. Certo il governo gialloblù può rispondere con la sempiterna chiusura dei porti, rinunciando a una quota significativa del progresso compiuto dall’occidente sul cammino della civiltà. E sarebbe un ulteriore colpo all’idea di Europa che si è andata formando soprattutto in questi ultimi 70 anni. Colpo che si aggiunge, e duole dirlo, a quelli già inferti non solo dai gruppi “anti” ma da coloro che sulla carta si definiscono fautori dell’unità del Vecchio Continente.
La locomotiva franco-tedesca, quella che dovrebbe trainare in direzione opposta rispetto alla locomotiva-Salvini, tossicchia e arranca. Non ha fatto tesoro dei macroscopici errori del passato e li sta reiterando con gravi conseguenze. Agli esordi della crisi greca, altro banco di prova cruciale, la cancelliera Angela Merkel per conservare il potere in patria, aspettò sei mesi prima di accettare il varo del programma di aiuti perché c’erano le elezioni nel Nord Reno-Vestfalia e temeva l’ira del contribuente tedesco.
Risultato: il salvataggio di Atene diventò problematico e costerà, a conti fatti, quattro volte di più. Analogamente ora, per sedare la ribellione del suo ministro degli Interni Horst Seehofer, insegue l’estrema destra nel respingimento dei migranti e ribaltando la postura grazie alla quale, tre anni fa, era stata la paladina della difesa dei valori europei. Nella Francia proverbiale terra dei diritti dell’uomo, il presidente Macron, sconfitta Marine le Pen, ne ha però mutuato qualche idea, vedi gli atteggiamenti a Ventimiglia e Bardonecchia. Che sono in parte il frutto del retaggio del Bataclan e di Nizza.
Ma così sta avvalorando l’equivalenza tra immigrazione e terrorismo. Non siamo alla “pacchia” e alla “crociera” delle barche dei disperati di Salvini, il ministro degli Interni in perenne campagna elettorale a colpi di tweet. Ma certo siamo all’inseguimento dei populisti sui temi che alimentano la percezione della paura (attenzione, la percezione: il numero degli arrivi è drasticamente diminuito, l’invasione uno spauracchio sapientemente agitato). In questo senso gli anti-sistema hanno già vinto perché sono riusciti a imporre all’intero quadro politico la loro agenda. La fotografia di luglio è il trionfo degli egoismi nazionali. Poco più di dieci mesi per mutare soggetto.