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La reazione internazionale delle istituzioni ufficiali contro l’incursione turca in Siria è stata una condanna morale senza esitazioni fin dall’inizio della guerra. Non perché la morte avesse un volto giovane e bello questa volta, ma piuttosto perché, per la prima volta, i paesi occidentali coinvolti nel conflitto cominciavano a riconoscere la loro responsabilità politica e morale nell’aver aperto il vaso di Pandora in Siria scatenando la volgarità corriva o la tracotante ignoranza di Trump e spianando la via alla folle politica di Erdogan nella regione. In effetti, tutti sapevano che il problema era lì da anni, sospeso in una pericolosa incertezza e nessuno aveva un piano per disinnescare questa bomba a orologeria. Il Pkk era stato riconosciuto come un’organizzazione terroristica a livello internazionale ma all’Ypg, ovvero alle forze curde combattenti nel nord della Siria, che avevano svolto il lavoro sporco per tutti gli altri, non era stato attribuito un legame certo con il Pkk, ma soltanto presunto, secondo la maggior parte della stampa internazionale.
Il governo turco non ha mai accettato questo prudente giudizio, ma per ragioni strategiche è rimasto relativamente silenzioso per anni. Ogni parte in causa può aver avuto le proprie aspettative riguardo alla strategia di uscita da questa situazione di incertezza, ma la tendenza generale era stata quella di “decidere strada facendo” o per dirla in termini più mediorientali, “la carovana si mette in fila una volta che si mette in moto”. Quindi il tradimento non era riconducibile soltanto alle decisioni impulsive di Trump che aveva lasciato solo l’alleato degli Stati Uniti nella regione, ma aveva trovato terreno fertile anche nella diffusa indifferenza internazionale.
Quando i filmati della Siria settentrionale hanno iniziato ad apparire sui social media, i politici filo-curdi in Turchia sono stati i primi a rispondere. Dall’inizio della guerra, sono stati divisi tra la reazione alla dura oppressione nella vita politica nazionale e agli sviluppi della situazione oltre i confini. Ne sono seguiti alcuni esitanti commenti critici dell’opposizione turca, che avrebbe potuto essere l’unica voce contraria in un ambiente fortemente nazionalista. Tuttavia, quando la retorica sciovinista sulla guerra al terrorismo ha invaso la sfera della comunicazione ed è apparso chiaro che quello che si stava vivendo era un momento estremamente pericoloso, persino le voci critiche più timide si sono spente, semplicemente per evitare di finire in carcere per un tweet. Se poi la paura sia stata l’unica ragione di questo silenzio è un’altra questione.
C’è stata una guerra fredda tra la politica curda e la sinistra turca, il naturale alleato della politica curda nella lotta contro le violazioni dei diritti umani e per la democratizzazione del Paese. La prima volta che il conflitto si è cristallizzato risale al 2003, prima dell’invasione dell’Iraq. Mentre la sinistra turca stava organizzando manifestazioni contro la guerra, i politici curdi sembravano un po’ riluttanti. Alcuni di loro erano affascinati dall’idea che si potesse creare uno stato curdo nell’Iraq settentrionale una volta iniziata l’invasione di questo paese.
La guerra fredda fu rinvigorita quando ebbe inizio il processo di pace tra il governo turco e Abdullah Öcalan, il leader imprigionato del Pkk. La sinistra tradizionale aveva criticato i politici curdi per aver prestato fede alle false promesse di Erdogan, ma i curdi non volevano perdere l’occasione storica di costruire la pace. Il danno è diventato irreparabile, tuttavia, in seguito alla guerra siriana. Mentre gli Stati Uniti appoggiavano l’Ypg e le forze armate curde ottenevano il riconoscimento internazionale come i combattenti più coraggiosi, la questione curda si trasformò drammaticamente per i turchi. Fino ad allora era stata un problema di democratizzazione e di rispetto dei diritti umani in Turchia, ma con lo scoppio della guerra civile in Siria si era trasformata in un conflitto mediorientale. I tradizionali progressisti turchi non erano nemmeno in grado di seguire la trama. I nomi arabi delle città, i nuovi gruppi curdi e gli equilibri di potere quanto mai complessi del Medio Oriente erano diventati qualcosa di incomprensibile. I curdi adesso stavano giocando, secondo loro, una grande partita con grandi giocatori sulla scena internazionale mentre la sinistra turca si trovava nel pieno del regime di Erdogan. Così, aveva cominciato a credere che i curdi avessero tradito la lotta democratica in Turchia, mentre i curdi, da parte loro, credevano di essere rimasti soli nella loro lotta per l’esistenza. Non solo, ma l’unica figura politica che avrebbe potuto riallacciare i legami spezzati tra la sinistra turca e gli esponenti politici curdi, Selahattin Demirtas, co-dirigente del partito filo-curdo Hdp, si trovava in prigione dal 2016. E questo spiega il silenzio in cui è piombata oggi la Turchia. L’unico personaggio che sembra avere un piano in questa situazione è Putin, che ha appena incontrato Erdogan.
In questo nuovo mondo in cui le decisioni politiche globali non vengono più prese da istituzioni democratiche trasparenti ma da pochi uomini a porte chiuse, sono loro che decideranno di fatto il destino del popolo curdo. Immagino oggi una combattente donna curda nel Rojava che sta osservando la disgustosa banalità della storia in atto in questo modo mafioso. I sostenitori di Erdogan useranno la sua foto per abbellire il loro nuovo hashtag, “Un buon comandante vince sul campo. Un buon politico vince a tavolino. Un vero leader vince in entrambi i casi”. Gli americani useranno la sua immagine come materiale politico di sostegno nella frenesia dell’impeachment. Per Putin e Assad sarà la pedina di scambio più preziosa. A Erdogan è già servita come strumento per consolidare nel modo più efficace il suo potere nella vita politica interna ormai da un decennio. Come figlia di un popolo che ha sempre vissuto alterne vicende nel corso dei secoli ed è stato sospinto nella posizione geografica più scomoda del mondo e che ha sempre dovuto morire sperando di essere riconosciuto, oggi questa combattente deve chiedersi se la sua lotta contro l’Isis sarà mai ricordata.