Le ultime voci di un popolo in fuga da Ras al Ain, epicentro dell’aggressione turca. Con la sua caduta tramonta anche il Rojava, isola di libertà in Medio Oriente

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Insieme alla caduta di Ras al Ain, è tramontato anche il sogno di un Rojava libero. Due bare sfilano attraverso una folla con le mani innalzate verso il cielo, mentre entrano nel cimitero Serixan, nella città curda di Qamishli. È fine mattinata del 17 ottobre, qualche ora prima dell’annuncio di un cessate il fuoco di 120 ore da parte del presidente turco Erdogan. La musica inneggia al loro martirio. La folla li acclama. I due soldati delle Forze democratiche siriane (Fds), le forze curdo-siriane sotto attacco, sono morti a Ras al Ain, cittadina diventata l’epicentro dell’aggressione turca nel nordest della Siria, cominciata il 9 ottobre, e per alcuni giorni unico vero fronte.

Molti si avvicinano, piangono sulle bare addobbate con foto e bandiere. Le baciano. Altri sparano verso il cielo. Le donne urlano. «Ho perso anche io mio figlio a causa della guerra. È morto nel 2015 combattendo lo Stato islamico. Ecco perché sono qui. Ricorderemo sempre i nostri martiri», commenta Zakia, seduta sulla tomba del figlio, in attesa di assistere alla cerimonia, insieme all’altro figlio Hajar: «Abbiamo sacrificato 11 mila combattenti contro il terrorismo. I nostri giovani sono morti non solo nel nome della popolazione curda ma per tutto il mondo. Sappiamo benissimo che Erdogan sta aiutando i terroristi a scappare dalle prigioni e li fa attraversare la frontiera. Come fa l’Europa a non rendersene conto?».
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Dall’inizio dell’operazione turca nel Rojava, denominata “Primavera di pace”, la cittadina di Ras al Ain, situata proprio a ridosso del confine, è stata bombardata senza pietà, prima di essere circondata e isolata dalle vie di rifornimento delle Fds. La Turchia è riuscita ad avanzare nella regione inviando sul terreno le milizie dell’Esercito nazionale siriano (Ens), per la maggior parte soldati dell’Esercito siriano libero. Più a ovest, per circa 80 chilometri, l’Ens ha potuto avanzare indisturbato raggiungendo la principale via di rifornimento nel nordest della Siria e tagliando le vie di comunicazione curde nella regione. È stata solo Ras al Ain a resistere. Anche dopo l’annuncio del cessate il fuoco, quando i bombardamenti e gli scontri a fuoco sono continuati imperterriti, tenendo in scacco feriti e civili in città. Solo dalle campagne sono riusciti ad evacuarli.
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A detta di medici e volontari, tutti gli ospedali della città sono stati distrutti facendo diventare l’ospedale Shehid Legerin di Tel Tamer, il punto di soccorso più vicino a pochi chilometri da una confusa e inesistente linea del fronte. Difatti, un vero fronte non esiste. I soldati delle Fds si nascondono nelle case, proteggendosi dai droni e dall’aviazione turca. Oltre ai feriti, all’ospedale arrivano su dei camioncini molti cadaveri rimasti sotto le macerie lasciate dagli attacchi aerei.

Il primo giorno di tregua, nel tardo pomeriggio, alcuni veicoli provenienti da villaggi vicino alla frontiera trasportano cadaveri in putrefazione. Un odore nauseante infesta il cortile, mentre il team medico si occupa di disinfettarli, coprirli degnamente e poi chiuderli in una sacca nera prima di caricarli su una cella frigorifera per gelati.
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Madri, sorelle e padri si fanno largo urlando. Grida strazianti sempre più forti man mano che percorrono il viale che porta sul retro dell’ospedale. È un pianto rabbioso. Costringono i volontari ad aprire le sacche, strattonandoli. «Perché?» grida una donna, quando vede la faccia del familiare ucciso. Un’altra sviene sul posto. Tutti inveiscono contro le Fds. Un uomo si avvicina, alza le mani al cielo gridando, per poi abbassare il capo e mettersi le mani sulla testa. È disperato ma cerca di mantenere il controllo. Una scena terribile, che meglio non può descrivere quello che sta succedendo nel Rojava. «Oggi, sebbene sia entrato in vigore il cessate il fuoco, i turchi hanno bombardato un villaggio vicino a Ras al Ain, facendo 10 morti e 8 feriti», dice il responsabile dell’ospedale, Hassan Amin.
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«Sin dall’inizio delle operazioni cerchiamo di portare i feriti qui perché tutti i punti medici a Ras al Ain sono sotto tiro o distrutti. Proviamo a dare un primo soccorso d’emergenza e poi dirigerli verso gli ospedali di Hasake e Qamishli. Non abbiamo i mezzi, né dottori a sufficienza. Non siamo riusciti a tirare fuori i feriti dalla città. È un crimine di guerra. Secondo la legge internazionale i feriti hanno il diritto di essere curati, ma la Turchia ce lo ha impedito», commenta invece il dottor Javan, responsabile del ministero della sanità della regione, seduto sul tetto dell’ospedale dove è dipinta una croce rossa per non essere bersagliati dall’aviazione.
Poche ore dopo le cose cambiano. Un convoglio di 30 ambulanze tenta di forzare l’assedio della città, ma viene respinto e attaccato. Il giorno seguente, medici coraggiosi ci riprovano, questa volta riuscendo a entrare in città. L’Ens li tiene sotto tiro. Possono andare all’ospedale, caricare i feriti e uscire. Mezz’ora, non di più. Alla fine è un successo: 30 feriti sono portati in salvo, insieme a 4 cadaveri.

Solo alcune ambulanze tornano all’ospedale Shehid Legerin, con i casi meno gravi. Piove, l’elettricità va e viene.
Il giorno seguente, un altro convoglio riesce ancora una volta ad entrare. Questa volta non sono solo i feriti ad essere evacuati ma anche i soldati delle Sdf rimasti in città. Finalmente si hanno notizie di cosa stia succedendo in città dopo giorni di silenzio assoluto. «Siamo passati attraverso il checkpoint dell’Ens. I soldati ci guardavano con sospetto», racconta David Eubank, direttore di un’organizzazione di volontari medici ed ex militari chiamata Free Rangers Burma e presente con il convoglio entrato a Ras al Ain, «quando siamo usciti dalla città gridavano “Allah Akbar”, in segno di vittoria. La città non è rasa al suolo completamente, ma c’è molta distruzione, auto bruciate, crateri in strada, negozi distrutti, edifici in frantumi. Siamo andati direttamente all’ospedale per caricare i feriti e al mercato per prendere i civili che aspettavano con le valigie in fila indiana, come se stessero aspettando l’autobus. Non potevamo fare altro anche perché, non appena un’ambulanza ha sbagliato una curva, i miliziani hanno cominciato a sparare».

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David e la sua squadra sono stanziati a poche centinaia di metri dalla prima linea, nascondendo le loro ambulanze blindate sotto gli alberi e vivendo in una casa abbandonata vicino al villaggio di Asadyie, a 3 chilometri da Ras al Ain. La prima linea è silenziosa. Si sente solo il fruscio del vento che muove i rami degli alberi. Nel cielo, vola in alto un drone del nemico, invisibile. Il silenzio è terrificante, quasi a voler precedere un attacco. I soldati delle Sdf si nascondono nelle case, non si fanno vedere.
Dopo l’evacuazione di soldati e civili dalla città, confermata anche dall’alto comando delle Sdf, Ras al Ain è caduta saldamente in mano ai miliziani sostenuti dalla Turchia, terminando una fase di resistenza coraggiosa e aprendo le porte a nuovi sviluppi dopo la fine del cessate il fuoco.
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Le voci di quello che è successo in città sono confermate anche dai civili feriti evacuati nel convoglio. Nell’ospedale Al-Rahme di Qamishli, seduto sul ciglio del letto e fumando una sigaretta, Mohamed, 20 anni, parla liberamente. Ha rifiutato di fuggire all’inizio dell’attacco ed è stato colpito da un bombardamento turco: «Sono voluto restare a Ras al Ain. È la mia terra, il mio paese. Quando la guerra è cominciata ho aiutato i soldati portando provviste. Tre giorni fa però, sono stato colpito». Mohamed ha la faccia ustionata, le braccia fasciate e fatica a muoversi, visto che ha parti del corpo rotte. «All’inizio, nell’ospedale non riuscivo nemmeno ad aprire gli occhi. Stavamo nel seminterrato. Un luogo buio con molti letti. Avevano solo flebo, antidolorifici e qualche benda per curare. C’erano solo un medico con tre infermiere. Niente elettricità. I feriti arrivavano in continuazione. Quando sono arrivate le ambulanze non sapevamo nulla. I medici ci hanno detto di prepararci in fretta per partire».

La cosa più dura da accettare, per lui, è forse il fatto che a casa sua non ci potrà più tornare. «Sappiamo benissimo cosa ha fatto la Turchia ad Afrin con i suoi alleati terroristi. Uccidevano e torturavano. Queste persone che sono entrate a Ras al Ain sono come Daesh. Non c’è differenza. Li ho visti per strada. Una volta ne ho scorti alcuni con barba e capelli lunghi e uniformi militari. Uno di loro aveva in mano un coltello lungo e affilato».
L’espressione persa di Mohamed fa capire quanto la consapevolezza di non poter più tornare a casa propria, possa abbatterlo. Ma non è l’unico curdo che probabilmente non farà ritorno. Gli sfollati sono migliaia. Secondo fonti ufficiali delle Fds, le forze curdo-arabe, gli sfollati sarebbero già più di 400 mila e il numero di vittime civili sopra le 500 unità. Molti sono fuggiti nel Kurdistan iracheno, altri nelle città situate più a sud, lontane dal confine con la Turchia.
Ancora il giorno dopo l’evacuazione di tutti i civili e militari da Ras al Ain, molte famiglie scappano dalle proprie case con furgoncini pieni di averi personali e bambini seduti sul retro. In molti si fermano a Tel Tamer, primo crocevia, per poi continuare il proprio viaggio. «Stiamo scappando perché non c’è più niente a casa nostra. Non c’è cibo né acqua. Alcuni sono fuggiti non appena l’Ens è entrato nel nostro villaggio. I miliziani cercavano i curdi per imprigionarli oppure rubavano tutto per poi rivenderlo in Turchia. Rubavano anche la benzina dalle case per rivenderla al doppio del prezzo alla popolazione. Sono come Daesh, hanno le barbe lunghe e sono estremisti», racconta un civile appena fuggito con tutta la sua famiglia.
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In una scuola vicino al centro cittadino poi, circa 52 famiglie sfollate e provenienti dal villaggio di Zargan, vicino a Ras al Ain, vivono nei quattro piani dell’edificio. Nel cortile, i banchi sono ammassati mentre i bambini giocano e si divertono. Le classi sono diventate appartamenti per numerose famiglie che hanno creato cucine e letti di fianco alle lavagne. Fra di loro si è ormai sparsa anche la voce dei piani di Erdogan, che sembrerebbe voler mantenere il territorio conquistato per ripopolare la zona con i numerosi rifugiati presenti in Siria.
Come ha annunciato all’inizio di ottobre, esponendo il suo piano di 20 miliardi di dollari, la Turchia costruirebbe villaggi nella regione conquistata e la popolerebbe con un milione di rifugiati provenienti da altre zone della Siria presenti in Turchia, con lo scopo di cambiare la demografia. «Se saremo costretti a combattere per tornare a casa, allora brandiremo i fucili. Sappiamo benissimo di questo accordo, ma non possono obbligarci a lasciare le nostre case», commenta Salah, uno sfollato.

Nella fuga sono molte le cose che si sono perse, ma anche persone care. La famiglia di Shirin, per esempio, ha perso un figlio in un incidente nella fuga. «La sua testa è stata schiacciata in macchina» commenta, scoppiando in lacrime. Per terra, uno dei loro figli è malato. Giace sotto una coperta con il viso pallido e morente. Anche il marito, Ammar, scoppia in lacrime solo al ricordo. «Non torneremo con l’Ens. La nostra casa è stata distrutta e loro ci ucciderebbero», dice Shirin.

Per le persone di Ras al Ain ma anche di tutte le regioni occupate, il ritorno a casa sarà improbabile a meno di un ritiro improvviso dei miliziani. «Vogliono che ci ritiriamo di 30 chilometri. Ma senza garanzie di protezione delle nostre famiglie. Non accetteremo mai che persone provenienti da altre regioni della Siria si stanzino in casa nostra. Vogliono cambiare la demografia, creando una zona di sicurezza che va da Mambij fino a qui», dice il comandante della linea del fronte di Ras al Ain, Hwker Falak, giovane e coraggioso.
Ciò nonostante, i piani di Ankara potrebbero improvvisamente virare con l’intervento russo nella regione, che potrebbe cambiare le carte in tavola. Sta di fatto che il sogno di un Rojava indipendente e libero, i curdi lo hanno ormai dimenticato.