Praga di nuovo in piazza 30 anni dopo. Perché «La libertà non è per sempre»
Petr, Ina, Barbora. E migliaia come loro. Sulle strade della Rivoluzione di velluto si incrociano i destini dei cechi che hanno abbattuto il comunismo con chi oggi vuole liberarsi di Babis, «ex agente della Gestapo rossa»
Petr, 34 anni che sembrano meno, è impegnato da sempre, figlio del dopo-Muro. Germanista di successo alla prestigiosa Università Carlo di Praga come la splendida bravissima bionda moglie Ina, hanno scritto lei un libro sui cecoslovacchi morti nel Gulag e lui una brillante storia della censura sotto l’Impero del Male. Ina è in congedo maternità pagato ma sempre in prima linea nell’impegno civico, mano nella mano con Petr che ha lasciato l’ateneo per lavorare per l’Autorità anticorruzione, per scelta etica. Petr e Ina sono i giovani cèchi europei di oggi, sempre sorridenti gentili ed eleganti casual. La loro amica e quasi mentore all’università Barbora Kosikova, 59 anni, era la giovane di ieri, oggi 59 anni) che dopo anni di emarginazione, interrogatori brutali, pressioni e minacce alla famiglia della famigerata Stb (Státní Tajna Bezpecnost, la Gestapo rossa dei dittatori-fantoccio installati da Breznev dopo l’invasione del 21 agosto 1968, si decise nell’autunno 1989 a scendere in piazza San Venceslao sfidando idranti, manganellate a sangue e cani coi denti limati più aguzzi in nome della democrazia e della libertà.
Eccoci nell’estate di Praga, la nuova Primavera e la nuova Rivoluzione di velluto trent’anni dopo. Giovani di ieri e giovani di oggi «sono in piazza fianco a fianco, non più per conquistare la democrazia ma per difenderla dai corrotti autocrati, il premier-tycoon Andrej Babis ex agente della StB e il presidente russofilo Milos Zeman», dicono Petr e Ina. Col piccolo Matej, il figlio vivacissimo di poco più di un anno, mano nella mano con mamma e papà. Siamo a Letna Park, il luogo dell’ultima grande dimostrazione, Matej intenerisce tutti quando cerca di imitare i dimostranti che cantano il dolce inno nazionale “Kde domov muj, Dov’è il mio paese”, e altri in controcanto intonano l’Ode alla gioia di Beethoven, inno europeo, come a dire: la risposta a dov’è il nostro paese è che siamo europei.
Sorrisi, picnic, giovani di oggi e giovani di ieri che si riincontrano commossi di gioia. E Barbora accanto ai due sposi porta il peso di ricordi cupi. Sullo sfondo, la musica rock ribelle che piaceva a Vaclav Havel. «Per fortuna abbiamo questi giovani meravigliosi, noi giovani di ieri, dobbiamo continuare a lottare per non far perdere a loro quanto noi conquistammo, una democrazia ancora fragile, insidiata dagli ex della StB», sussurra nel suo elegante francese. Poi narra, passeggiando fino a Vaclavské Námestí, la storica Piazza San Venceslao, ti dà una lezione di storia vissuta.
«Trent’anni fa nel 1989 la mia scelta di vincere la paura e scendere in piazza fu legata anche alla storia della mia famiglia. Mio nonno, che non conobbi mai, aveva un piccolo caffè a Vaclavské Námestí. I nazisti occupandoci nel 1938 lo chiusero, lui lo riaprì solo nel 1945, ma durò poco». Ricordi e rimpianti: la democrazia cecoslovacca creata da Tomas Garrigue Masaryk nel 1938 era più industrializzata e tecnologica della Francia, alla fine della lunga notte del colonialismo sovietico si trovò più povera del Portogallo. Ora si è rialzata in piedi, esporta auto, locomotive, jet ed elettronica, ed è decisa a non perdere la libertà ritrovata.
«Nel 1948, dopo la loro presa del potere, i comunisti confiscarono il caffè e altre proprietà alla mia laboriosa buona famiglia, per sempre. E lo chiusero, non seppero neanche utilizzarlo altrimenti. Poi mio fratello scelse la libertà, emigrò prima nella Repubblica federale poi in Canada, ora vive a Ottawa e siamo di nuovo in contatto. Subito dopo la sua fuga fui brutalmente convocata e interrogata dalla StB. Mi vietarono di vedere sia mio fratello sia mio padre “nemico di classe”, a meno che io non avessi accettato di diventare loro informatrice. Come studentessa fui sospesa dagli studi con la condizionale, cioè avrei potuto essere espulsa in ogni momento. Così vissi la mia giovinezza».
Petr e Ina con Matej in carrozzina intervengono: «Noi non abbiamo vissuto questi drammi, grazie alla generazione di Barbora siamo divenuti adulti in libertà, amiamo viaggiare low cost per il mondo, e facciamo paragoni». Buon livello di vita lavorando durissimo entrambi, viaggi, un mutuo per la casa e un’economica solida Mazda con abbastanza spazio per il baby. «Non possiamo digerire che un ex agente della StB come Babis e un russofilo che dice volgarità irripetibili contro le donne e minaccia i media brandendo un Kalashnikov in legno a ogni apparizione sui canali tv a lui fedeli ci governino, non è questa la nostra identità. Per questo, all’ultima grande manifestazione del movimento Milioni di momenti per la libertà non abbiamo avuto bisogno di discutere nemmeno un attimo se andarci o no. Per la prima volta, una dimostrazione, eventi cui siamo abituati a partecipare da citoyens, è stata anche molto di più che non solo reincontrare ex compagni di ginnasio e università. Ne va della società civile e della Patria».
La Memoria di Barbora torna come un monito, mentre passeggiamo tra i locali di tendenza nei cortili, come alla birreria e locale rock di Hybernska campus piena di ragazze stupende e giovani sempre on line. «Andai in piazza da novembre ’89, non era più così difficile e pericoloso come in gennaio, o come il 28 ottobre ’88, quando fu schiacciata con violenza la dimostrazione per la festa dell’indipendenza. Ero a Praga sola e triste, ci eravamo appena sposati e mio marito era stato chiamato per il servizio militare. Quel 28 ottobre 1989 abitavo dietro Vaclavské Námestí, vidi la piazza deserta come una città morta. Capii poi, vedendo reparti speciali di polizia con idranti e cani, che l’avevano sgomberata. Pochi giorni dopo portammo un gruppo di scout in montagna, alcuni ragazze e ragazze arrivarono in ritardo, ci raccontarono come erano stati brutalizzati e pestati a sangue».
Petr e Ina ascoltano, scossi per quanto pure già sanno. «Noi non rischiamo tanto, ma non vogliamo piegarci a chi vuole svuotare la democrazia, a Babis e Zeman che parlano del nuovo movimento come di una ragazzata. Lo stesso lo dissero allora a Barbora e alla sua generazione i governanti comunisti, rifiutiamo lezioni da corrotti che non trattano nemmeno sull’ambiente, sabotano con Varsavia e Budapest gli accordi europei sul clima, e Babis in tv dice che non glie ne importa. Scusi, caro premier, a noi importa eccome sapere quali saranno clima ambiente e natura nel futuro in cui nostro figlio vivrà da adulto».
Siamo a Vaclavské Námestí, Barbora ricorda ancora. «L’atmosfera in piazza, sfidando il regime di manganellate pestaggi e idranti che sembrava eterno, cambiò dal 19 novembre a Praga. Il Muro di Berlino era già caduto, i media ufficiali non lo dissero ma tutti ascoltavamo la Voice of America, cogliemmo un mutamento nell’aria. Comparvero nel metrò e in strada i primi manifesti del dissenso, spesso ironici come è tipico di noi cèchi prendendo in giro i potenti al tramonto anche se l’Occidente non lo aveva ancora capito. Mio padre che - regista di documentari di fama mondiale per Unesco e Fao da anni - dopo l’invasione non aveva potuto più né lavorare né viaggiare, mi invitò a un dibattito in un club tenuto da un nuovo forum civico, era annunciato un ospite particolare: Vaclav Havel. Due giorni dopo, arrivarono in piazza anche gli operai, e voltarono le spalle allo “Stato operaio”. Scandirono in tuta blu «non siamo bambini neanche noi, né questi giovani, sputando in faccia a quell’insulto pubblico del regime, e ci abbracciarono».
Il regime cadde senza quasi che i giovani di allora lo sperassero fino in fondo. «Non avevamo nulla da perdere, eravamo in piazza per riconquistare libertà e democrazia che la Cecoslovacchia indipendente ebbe da quando fu fondata, temevamo di portare i bimbi in piazza. Quando crollò la dittatura un’esplosione di gioia ci unì tutti come in un cuore, un’emozione collettiva», ricorda Barbora. «Per noi ora è diverso», replicano Petr e Ina, «vogliamo difendere una democrazia ancora fragile ma a cui siamo abituati, nei cui valori etici siamo cresciuti. Non ci lasciamo dire dove dobbiamo andare da Babis ex agente StB e imprenditore-politico pieno di conflitti d’interessi, un uomo di cui la polizia chiede l’incriminazione per malversazione di fondi europei. Vogliamo sentirci fieri di essere cèchi e che nostro figlio si senta fiero in futuro, non vergognarci per colpa loro che progettano di acquistare sempre più media, di mettere russofili legati a Mosca alla testa di media pubblici, e magari svendere la nostra forte economia a Cina e Russia».
Per la giovane splendida coppia i ricordi cupi dei decenni passati sono lontani, ma vivi nella Memoria: i processi farsa come il processo Slansky, quelli ricordati da Arthur Koestler in “Buio a mezzogiorno” e da Artur London ne “La Confessione”, i condannati fucilati alla schiena o impiccati poi cremati, e le loro ceneri disperse in campi innevati da squadre della StB con le loro Tatraplan nere. O i ventimila prigionieri politici finiti negli anni Cinquanta nelle miniere d’uranio per l’atomica di Stalin e poi morti molti di cancro, i Panzer russi sulla folla nel ’68 come in una piccola anteprima di Tienanmen, o dopo l’invasione i filosofi torturati a morte dalla StB, accademici e due terzi degli iscritti espulsi dal partito comunista e spediti in miniera o a scavare le gallerie della metropolitana.
«La differenza», nota Barbora mentre ci godiamo il sole a Vaclavské Námestí, «è che mentre allora noi non avevamo nulla da perdere, oggi questi giovani e noi giovani di allora al loro fianco temiamo insieme che ex gerarchi comunisti ed ex agenti della StB torturatrice come Babis ci tolgano la democrazia o la svuotino di contenuti. Per fortuna non siamo ancora al livello dell’Ungheria di Orbán dove gli oligarchi minacciano di licenziamento chi non vota per il premier. La lotta continua con toni civili, come quelli del leader del movimento, il giovane teologo e filosofo Mikulas Minar: chiede dialogo, non potere.
Percorriamo Vaclavské Námestí verso l’alto, incontriamo le lapidi sempre coperte di fiori che ricordano Jan Palach e Jan Zajic, i due giovani che si immolarono col fuoco per protestare contro l’invasione. Barbora ricorda i suoi anni come consigliera dell’eroe del dissenso e poi primo presidente Vaclav Havel: «Momenti favolosi, trovò i ministeri allo sfascio e riorganizzò tutto. Fece lui il lavoro che troppi ministri non svolgevano, riunioni continue per un nuovo stile etico di governo. Dopo la sua morte abbiamo avuto una decadenza etica in politica, con l’euroscettico Vaclav Klaus e ora con Babis e Zeman, ma fino all’ultimo Havel seppe infondere ottimismo e rigore nei cuori della gente».
Petr ascolta e sorride: «Havel è sopravvissuto, gli studenti in piazza con noi condividono le nostre emozioni e quelle di Barbora, e il ricordo di Lui, hanno l’etica scandinava della Cecoslovacchia di prima del 1938. Havel ci è restato nel cuore, ricordalo tu che fosti insieme al mio fianco al suo funerale», mi dice stringendomi l’avambraccio da amico caro. Il ricordo mi torna: alla fine della cerimonia nella cattedrale di San Vito sul castello fu intonato l’inno nazionale, e mentre i cannoni sparavano le salve d’onore Petr si mise la mano sul cuore e intonò quelle belle strofe in un sussurro, celando appena gli occhi umidi.
Questo articolo è il terzo della serie dedicata al trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Sul prossimo numero Belgrado ?e la Jugoslavia: la guerra del ’91, annunciata da Milosevic nell’89.