Budapest che sognava il capitalismo ed è finita tra le braccia di Viktor Orbán

di Gigi Riva     30 luglio 2019

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Soviet army tanks take position in Budapest 12 November 1956. The Red Army, stationed in Hungary under the 1947 peace treaty, attacked and seized 12 November 1956 the Hungarian capital and crushed the anti-communist uprising. (Photo credit should read -/AFP/Getty Images)

La rivoluzione del 1956. L’effetto Cernobyl. E la definitiva implosione di un regime in putrefazione. Lo scrittore András Forgách riflette sulle lotte e gli ideali di ieri. E sul potere autoritario di oggi

Soviet army tanks take position in Budapest 12 November 1956. The Red Army, stationed in Hungary under the 1947 peace treaty, attacked and seized 12 November 1956 the Hungarian capital and crushed the anti-communist uprising. (Photo credit should read -/AFP/Getty Images)
La Repubblica Popolare d’Ungheria, cioè il regime comunista, non crollò all’improvviso nel 1989 ma «assistemmo alla sua fine come se vedessimo un film al ralenti», ricorda András Forgách, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e attore tra i massimi del Paese. Il primo fotogramma di una crepa, nella sua memoria, risale agli inizi degli anni Ottanta quando lui e i suoi amici dissidenti si presentarono dal loro sindaco di quartiere a Budapest con la richiesta di ospitare per non meglio imprecisati “incontri letterari” alcuni giovani militanti di Solidarnosc.

Nell’ufficio trovarono una donna estremamente preoccupata che continuava a porre domande. “Chi sono questi bambini?”, “cosa vengono a fare?”. Erano figli di militanti di Solidarnosc che, per il loro impegno politico, avevano perso il lavoro o erano stati incarcerati. La donna sindaco avrebbe avuto il potere di rifiutare il visto anche solo con un escamotage burocratico e tuttavia glielo impediva l'aria di un tempo in cui stavano saltando le regole inflessibili della dittatura. Gli oppositori non si nascondevano più, pubblicavano i loro Samizdat con nome e cognome, numero di telefono, indirizzo del giornale. «Era», ancora Forgách, «una sfida aperta alla polizia, un modo per dire agli apparati della repressione: volete proprio arrestarci? Sapete dove trovarci». Gli agenti controllavano i soggetti “pericolosi”, li seguivano, li pedinavano, tuttavia senza il coraggio di far scattare le manette.

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Poi, nel 1986, venne Cernobyl. Anche l’Ungheria era a rischio perché le nubi portavano piogge con ricadute radioattive sul territorio. La censura non impedì la divulgazione delle notizie sul disastro della centrale nucleare ucraina, «e già questo era significativo, prima non sarebbe mai potuto succedere, la popolazione sarebbe stata tenuta nell’ignoranza». Era già un’epoca in cui, esattamente come per la nube, non si potevano fermare al confine le informazioni. Molti più ungheresi viaggiavano rispetto al passato. Vienna era la meta privilegiata. Non solo i commercianti per vocazione ma anche diversi intellettuali organizzavano spedizioni nella capitale austriaca dove acquistavano lavatrici, televisori, i primi computer per poi rivenderli in patria a prezzi anche dieci volte maggiori. Le prime forme di mercato non controllato dal potere, però tollerato.

La palla di neve del cambiamento si fece a poco a poco valanga. Forgách ebbe l’opportunità di discuterne con la madre, già fervente comunista e informatrice del servizi anche sulle attività del figlio (tutto raccontato nel libro “Gli atti di mia madre”, Neri Pozza), che pure aveva abbandonato l’utopia ideologica per abbracciare posizioni vagamente ecologiste: anche lei che sembrava la più severa custode dell’ortodossia concordava sul fatto che il sistema non funzionava più.
András Forgách

L’89 fu dunque solo l’accelerazione verso la definitiva implosione di un regime in putrefazione. Nell’aprile il governo ordina che sia tolta l’elettricità alla barriera lunga 240 chilometri che correva alla frontiera con l’Austria. A giugno viene simbolicamente rimosso dai ministri degli Esteri un pezzo di recinzione, poi sfondata ad agosto da novecento tedeschi dell’est che da lì passarono per raggiungere i fratelli separati nella Germania Federale: «Sapevamo che tutto questo era stato possibile grazie al benestare di Mikhail Gorbaciov, presidente del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica, ma in ogni caso avvertivamo che la storia si stava facendo sotto i nostri occhi». E tuttavia, per il letterato Forgách, l’aspetto più interessante, l’indizio più robusto, fu il mutamento del linguaggio.

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«L’insurrezione del 1956, soffocata nel sangue, non era più una “controrivoluzione” ma una “rivolta”. E a pronunciare il nuovo termine fu un influente membro del partito, Imre Pozsgay che aveva il chiaro intento di diventare capo dello Stato, ma fu bloccato dai liberali, i quali volevano recidere ogni legame col passato. Pozsgay, vent’anni dopo sarebbe diventato uno dei più influenti consiglieri di Viktor Orbán». Il solito trasformismo trasversale alle latitudini e alle longitudini.

András Forgách aveva allora 37 anni e benché non amasse le manifestazioni di piazza, si infilava nei cortei per quell’euforia che aveva contagiato gran parte della popolazione all’alba della democrazia nascente quando si imparava il funzionamento di istituzioni finalmente liberate dal giogo del partito unico. E assisteva al regredire dello Stato fino ad allora onnipotente. Pur conservando una certa cautela nel giudizio sull’esito finale «perché ogni dittatura morente può essere molto pericolosa e la speranza è una gran cosa ma spesso può risultare illusoria».

La consapevolezza che il processo era irreversibile la ebbe con l’esecuzione del satrapo di Romania Nicolae Ceaucescu e di sua moglie Elena, il giorno di Natale del 1989. «Praticamente l’Ungheria si bloccò come ipnotizzata davanti alla televisione a seguire la rivoluzione nel Paese vicino. Sapevamo dentro di noi che il processo farsa alla coppia e il successivo duplice omicidio rappresentavano una grande ingiustizia dal punto di vista legale. Eppure eravamo contenti per il simbolismo di quell’atto dopo il quale niente sarebbe stato più lo stesso. La Romania era come la Francia di fine Settecento, si era liberata del re tiranno e della regina. La loro fine era simile a una tragedia greca».

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Quanto al dopo, si sapeva cosa si voleva anche se, vista retrospettivamente, se ne aveva un’idea drogata dal rifiuto di ciò che era stato “prima”. «Volevamo il capitalismo, parola considerata di merda, scusate il termine, durante il regime. Volevamo la democrazia dell’Ovest, il sistema degli “altri”, perché avevamo idealizzato quel modello di vita. Ora lo possiamo dire perché a posteriori si è sempre più intelligenti ma fu un errore quell’apertura totale e acritica alle grandi imprese internazionali, in breve ci ha portato alla catastrofe. Molto velocemente, nel giro di cinque anni erano già visibili le disuguaglianze, fino ad arrivare ai quattro milioni di poveri oggi».

Si è accettato, dunque, che il sistema capitalistico affossasse quel minimo di welfare che permetteva, in assenza di diritti fondamentali, comunque di sopravvivere dignitosamente. «Sempre nella storia si può osservare che quando non se ne può più di un sistema si abbraccia il suo opposto pur di cambiare. I politici attuali hanno inventato un loro dizionario e sono riusciti ad imporlo. Il partito aggressivo al potere ha vinto sul senso delle parole che impone. E ha il vantaggio di non avere per antagonista un dizionario alternativo, dunque ha obbligato il popolo a usare il suo. Ho letto recentemente sul “Guardian” che sta sorgendo un nuovo pensiero economico di sinistra e mi sto interrogando sul tempo che ci vorrà perché questo nuovo vocabolario diventi linguaggio corrente e diventi concorrenziale».
BUDAPEST, HUNGARY - FEBRUARY 17: Hungarian Prime Minister Viktor Orban speaks to the media with Russian President Vladimir Putin at Parliament on February 17, 2015 in Budapest, Hungary. Putin is in Budapest on a one-day visit, his first visit to an EU-member country since he attended ceremonies marking the 70th anniversary of the D-Day invasions in France in June, 2014. (Photo by Sean Gallup/Getty Images)

Succede che, con Orbán dominante, anche le classi intellettuali non abbiano più voce, quando invece durante il cosiddetto socialismo reale la cultura aveva grande importanza, quasi che il sapere fosse un surrogato delle libertà. Fu proverbiale, nei Paesi dell’Est, l’amore per la musica, la cultura, l’arte. «Appena dopo l’implosione del partito ci fu una grande fibrillazione culturale. Avevamo la carta per stampare i libri, gli artisti guadagnavano molto denaro, i teatri erano pieni. La classe politica ha capito pian piano che per vincere le elezioni, per avere il consenso, non aveva bisogno degli scrittori o degli attori. Così la cultura da uno dei primi posti nella gerarchia sociale è scivolata al settimo-ottavo posto. Credo non sia un fenomeno solo ungherese, in Italia o in Francia succede la stessa cosa».

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Trent’anni dopo, è amaro constatare che si è lottato per la libertà salvo finire in quella che lo stesso leader assoluto del Paese ha definito “democrazia illiberale”. Tanto da chiedersi se ne è valsa la pena... «Credo che sia necessario fare un po’ di chiarezza anche sulla definizione di cosa siamo stati perché altrimenti rischiamo di sbagliare analisi. Il regime che abbiamo avuto per 40 anni non era socialismo ma era statalismo, era feudalesimo. Con un abile gioco di prestigio e fingendo di cambiare tutto, Orbán in realtà ha riproposto gli stessi modelli. Ha statalizzato tutto quanto ha potuto, la compagnia elettrica, quella del gas eccetera. Con una propaganda ossessiva ha convinto che lo Stato-mamma si occupa di te, è buono e bravo e vuole il bene dei cittadini, anche se tutto costa più caro, anche i servizi essenziali».

Non per caso l’ex Paese satellite dell’odiata Unione Sovietica adesso ha uno zar, Vladimir Putin, come punto di riferimento. «Orbán imita Putin, prende le stesse posizioni contro le ong, la società civile, l’Accademia delle Scienze. Dice di essere contro il socialismo ma ha reimmesso lo statalismo, come dicevo. Il traduttore di un mio libro in croato mi ha raccontato che Orbán era un caro amico dello scomparso presidente di Zagabria Franjo Tudjman. Durante una conversazione Tudjman gli ha fornito la ricetta: per governare hai bisogno di duecento persone non di più. E questo si chiama appunto feudalesimo. In Ungheria oggi ci sono 200 o se si vuole 1000 persone ricche. E stop. Gli altri, poveri. In mezzo, il nulla, niente classe media. Sotto ai pochi eletti, una massa indistinta di persone».

András Forgách trova conforto nella storia se non per consolarsi, almeno per trovare una spiegazione. «La nostra cartina di tornasole è la Francia, sono i suoi cicli. La grande speranza dei moti del 1848 e poi, dopo 4 anni, ecco Napoleone III, personaggio contraddittorio che ha fatto molto per l’economia francese ma nello stesso tempo esercitava un potere oppressivo in tutti i campi, finché portò il Paese alla guerra con la Prussia. Apertura e chiusura, si procede a fisarmonica. La storia non è una locomotiva che va sempre dritta verso il progresso, ma è una locomotiva che va in tutte le direzioni e talvolta torna indietro».

Orbán come un Napoleone III allora? «Psicologicamente Orbán usa la nostalgia verso un Kádár (János Kádár, uomo forte del regime con differenti incarichi dal 1956, dopo la rivolta sedata, al 1988, ndr) o un Horthy (Miklós Horthy, ammiraglio, reggente del Regno d’Ungheria dal 1920 al 1944, ndr), ne ripropone gli atteggiamenti, il linguaggio, la postura per accreditarsi come uomo forte, capace di infondere sicurezza davanti alle insicurezze del mondo globalizzato con problemi come l’immigrazione. Cosa pensi davvero non saprei dire. Non so se creda in qualcosa se non in sé stesso».

Eppure nonostante questo esercizio del potere autoritario non si vede all’orizzonte un movimento organizzato di opposizione come trent’anni fa. «Non ci sono leader. Nemmeno i sindacati ne hanno. Orbán ha distrutto le centrali sindacali negli ospedali, nelle scuole, nelle ferrovie, laddove si costruiva il pensiero e la politica. Li ha distrutti corrompendo i funzionari e centralizzando tutto. Prendiamo l’educazione. Nemmeno ai tempi di Kádár c’era bisogno di un imprimatur del potere per i libri da adottare nelle scuole come avviene ora».

Verrebbe da concludere che, per usare le parole dello scrittore, se la speranza spesso è illusoria, almeno c’era, oggi non si intravede nemmeno quella. «Non ho grandi speranze. Il sistema è solido e non ha alternative. Si può anche andare in piazza a manifestare ma alla maggioranza del Paese non interessa. Il Paese è culturalmente indebolito, gli argomenti di dibattito sono primitivi, non c’è nulla di sofisticato soprattutto non c’è nulla di visionario. Se non ho speranze, ho però un desiderio. Ho 67 anni appena compiuti e un figlio di tre. Non so se nel mio orizzonte di vita ma almeno nel suo mi auguro possa esistere un mondo diverso e migliore. Non vedo come possa succedere e confido nella famosa fisarmonica della storia. Orbán ha vinto e ha cristallizzato la società, immobilizzato la popolazione. Una società immobile non ha nulla da proporre».

Questo articolo è il quinto ?di una serie dedicata al trentesimo anniversario della caduta ?del Muro di Berlino. Sul prossimo numero sarà protagonista ?la Germania.