La storia personale del neopresidente degli Stati Uniti è segnata dai lutti. E forse può segnare un cambiamento nella politica e la fine delle leadership muscolari

Senator Joseph R. Biden, D-Del., is seen here at Union Station where most days, after the Senate adjourns, he catches the Metroliner to Wilmington for home. He makes the four-hour commute almost daily to be with his motherless sons Beau, 4, and Hunter, 3. The senator lost his wife and daughter in an auto accident December 18, 1972.
Con un passo discreto e quasi furtivo sua maestà il dolore si è insediato nel cuore della politica americana e dunque mondiale, raggiungendo il trono più alto, ancorché lungamente nascosto. Le ferite che la vita ha inferto al nuovo presidente americano Biden sono state trattate con garbo e senza troppa enfasi. Innanzitutto da lui che ha perduto una moglie e una figlia tanti anni fa, agli inizi della sua “carriera”, e poi ancora un figlio quando quella carriera sembrava avviata al suo tramonto.

È inevitabile che questo corteo di disgrazie che ha accompagnato i suoi anni di responsabilità pubblica lo abbia segnato in profondità. Ed è apprezzabile che l’argomento non si sia dilatato più di tanto, né per richiamare la commiserazione dei votanti né per distrarre protagonisti e spettatori dal cuore di quella acre disputa politica che ha attraversato per mesi e mesi la più grande potenza mondiale.

Ma è proprio nella dialettica tra la potenza del paese e la fragilità dell’uomo che ora la guida che si può cogliere il segno, o almeno l’avvisaglia, di un tempo politico inedito. Nel senso che è ovvio che il neo-presidente americano è un uomo che ha sofferto molto. E che assai probabilmente proprio da quella sofferenza ha tratto la forza d’animo che gli serve ora per condurre a buon fine, per quanto possibile, il compito che gli elettori gli hanno appena affidato. Aprendo però anche una inedita sconnessione tra la felicità privata e quella pubblica.

Ora è evidente che anche nella apparente casualità degli eventi un leader mondiale che si è trovato ad essere per due volte “orfano” dei suoi figli non può non aver tratto da tutto questo delle conseguenze relative anche al suo modo di porsi di fronte alle scelte e alle difficoltà che la quotidianità politica gli offrirà. Ed è altrettanto evidente che un elettorato che si è affidato a una figura così sofferta, diciamo pure così sfortunata, magari non l’avrà fatto consapevolmente, ma nel suo inconscio collettivo deve aver considerato che un presidente segnato dal dolore poteva essere l’uomo giusto al momento giusto.

Commento
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Voglio dire che questa circostanza, che ai più distratti può apparire del tutto fortuita, segnala invece forse un vero e proprio mutamento del paradigma politico. Può essere il tramonto di leadership muscolari e velleitarie, e magari l’inizio di un ciclo diverso in cui la grandezza dei condottieri non viene più affidata ai loro proclami più stentorei (e qualche volta più fasulli) ma viene piuttosto appoggiata sulle spalle di chi ha pianto e si è disperato e ha dovuto fare i conti con le avversità più onerose della vita.

Se così fosse, si tratterebbe di una novità di non poco conto. Segnerebbe l’archiviazione di un modello di potere “machista”, tutto affidato alla propria forza d’urto, poggiato su figure chiamate a riversare sulla scena la propria potenza di fuoco -anche quando si tratta di una potenza puramente immaginaria. E magari la graduale affermazione di un potere finalmente imperfetto, segnato appunto anche dai dolori che ha vissuto e dalle tante fragilità e dai tormenti che gliene sono derivati.

Negli anni Quaranta e subito dopo, a guerra finita, si affacciò sulla scena pubblica un’altra generazione che aveva molto sofferto e molto visto soffrire. Negli Stati Uniti c’era ancora Roosevelt, costretto sulla sedia a rotelle (e tuttavia ansioso di darlo a vedere il meno possibile). E dalle nostre parti, caduto il fascismo, si riversarono nella vita politica una gran quantità di figure che avevano patito un’infinità di disgrazie: la fame, la paura, il tradimento, le privazioni, la perdita dei propri familiari e via dicendo.

Gente che ebbe cura di non ostentare più di tanto le sofferenze che aveva attraversato, ma che magari ne aveva tratto una sensibilità, un’acutezza di sentimenti, una consapevolezza dell’animo umano di cui forse in un altro contesto non sarebbe stata capace. Tutte cose che avrebbero influito, e non poco, sulle loro scelte politiche e sui destini dei loro paesi.

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Mano a mano che il benessere ha archiviato il ricordo della guerra e che i mezzi di comunicazione hanno suggerito pose più teatrali e immaginifiche, le campagne politiche hanno preso a privilegiare altri aspetti della leadership. Si è come depositato nell’animo di quanti si occupavano della cosa pubblica l’istinto di volersi presentare al meglio di sé, ostentando una forza che forse non possedevano e una vita di realizzazioni che non sempre era la loro.
Non ci si doveva più emozionare -se non fintamente, e a favore di telecamera. Era disdicevole confessare un dubbio, un’incertezza. Veniva considerato appropriato, e sempre più doveroso, offrire ai propri elettori il riverbero di una vita ben riuscita, quasi patinata. Tra familiari inevitabilmente in festa, sorretti da una salute di ferro e all’occorrenza pronti a ostentare certezze granitiche quasi mai sfiorate da alcuna problematicità.

Ogni traccia di malumore, di pessimismo, anche solo il soffio di un pensiero più dubbioso, l’accenno di una perplessità, tutto questo doveva essere archiviato e possibilmente tenuto ben nascosto. Mentre una finta sicurezza e un dubbio appagamento di se stessi ne prendevano allegramente il posto.

Ma è stata proprio questa la strada che ci ha condotto fino a Trump. Dico Trump per dire un modo di intendere le cose e le altre persone. Un modo che in lui ha raggiunto punte di particolare odiosità, ma che ha sfiorato tanti altri, spingendoli verso posture energiche e volitive e finendo per velare quel che c’era di umanamente sensibile in ognuno di loro.

Si dirà: è stato il virus. La paura del contagio che forse ci ha resi più attenti e ha tolto quel troppo ruvido spessore che s’era accumulato sulla nostra pelle. Ma è una spiegazione che spiega a metà. E infatti il virus sortisce a volte l’effetto opposto, e spinge almeno altrettanto verso la ricerca di figure che incarnino quello spirito securitario che in tempi così difficili funge da consolazione della nostra generale afflizione.

Forse è più appropriato pensare che si sia trattato solo di un caso. E che Biden sia stato sospinto fino alla Casa Bianca dal suo dolore e dalla sua forza insieme. Che lo abbiano aiutato le mille astuzie e accortezze che si accumulano in anni e anni di vita parlamentare, imparando a sopravvivere e a trarre profitto dalle ingenuità e debolezze altrui. Il “mestiere”, insomma. E accanto a questo, però, la consapevolezza che quelle arti ti aiutano a sopravvivere ma non riempiono il dolore di altri vuoti che nel frattempo ti hanno afferrato e preso alla gola.
Tutto può essere, certo. Tutto e il suo contrario. Ma in politica perfino il caso racchiude un destino, e qualche volta lo anticipa. Dunque è possibile che quei dolori che Biden ha attraversato abbiano avuto a che vedere con il consenso che ha raccolto. Ed è possibile anche che quella sua biografia umana tanto sofferta abbia parlato ai suoi elettori al di là delle sue parole e dei suoi gesti.

Quello che è certo è che una volta che questi argomenti arrivano a sfiorare, anche di sfuggita, la disputa politica e a riempire perfino i suoi silenzi sarà molto difficile espungerli di lì.