Il populismo non è morto. E il suo prossimo "campione" potrebbe essere peggiore
La vittoria di Joe Biden non deve fare dimenticare che Donald Trump ha comunque ottenuto oltre 70 milioni di voti. Serve quindi agire sui motivi della rabbia che cresce prima di ritrovarsi un suo nuovo "profeta" persino più pericoloso
Il mondo lotta drammaticamente contro il coronavirus, ma esiste anche un altro virus. Di genere “biopolitico” differente, dilagato da ben più di un decennio, e alimentato ulteriormente proprio dal maledetto Covid-19. Ossia il neopopulismo. Come conferma l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi, le più partecipate della storia d’Oltreoceano, nelle quali Donald Trump è comunque riuscito a ottenere il consenso di oltre 71 milioni di americani, un po’ meno di metà della mela. E si tratta, per l’appunto, di un segno chiarissimo del fatto che il virus neopopulista è anch’esso un mutante, e risulta ampiamente in circolazione.
Di qui, l’inopportunità di certe narrazioni troppo trionfalistiche sulla “svolta” avvenuta a Washington, e la necessità di guardare con attenzione alle lacerazioni e ai problemi che rimangono sul campo – e che freneranno, c’è malauguratamente da scommetterci, l’indispensabile spinta al cambiamento da cui dovrà essere mossa la prossima Amministrazione Usa. D’altronde, il realismo nell’analisi politica ha precisamente (anche) la funzione di andare a cercare i punti critici, i nodi irrisolti e le contraddizioni che si nascondono sotto la superficie delle cose e degli accadimenti. E, dunque, pensare che l’elezione di Joe Biden e di Kamala Harris archivi l’onda lunga del populismo rappresenta, purtroppo, un puro “wishful thinking” (e una pia illusione). Con questo risultato, certamente, viene eretta una diga importante, ma il fiume è carsico, e se non si affrontano le questioni di fondo che hanno ingrossato i suoi affluenti, trasformandolo in un’inondazione, permangono molti rischi. E la possibilità dell’ingresso sulla scena di leader ancora più populisti e duraturi (l’“iperpopulismo”) si fa molto tangibile. Biden potrà rimuovere una parte delle politiche trumpiane a colpi di ordinanze esecutive, ma se non si va alla radice delle problematiche di cui l’uomo che ha stravolto il Partito repubblicano si è rivelato il rabdomante e un megafono (e, soprattutto, una spia e un sintomo), si finirà per scalfirne assai poco il grumo ereditario.
Il ciclo populista non si è affatto chiuso – come, in tutta evidenza, vale pure per quello neoliberista, che si è fatto beffe delle tempistiche della teoria del pendolo nella storia elettorale elaborata da Arthur M. Schlesinger. Con l’insediamento del ticket democratico si innescherà un processo che, come ha detto nei giorni scorsi il filosofo liberal Michael Walzer, non condurrà a un New Deal quanto, piuttosto, a una “presidenza di restaurazione” chiamata a ripristinare alcuni elementi fondamentali della convivenza civile e politica.
Un primo segnale positivo, quello che si potrebbe considerare il viatico di un parziale raddrizzamento dello spirito del tempo, lo ritroviamo nella comunicazione politica online. Nelle presidenziali statunitensi, infatti, si sono scontrati anche due paradigmi di digital propaganda, con quella trumpiana nuovamente assecondata – seppure, dicono gli esperti, in misura minore rispetto al 2016 – dalle “interferenze maligne” di entità straniere con le loro fabbriche di troll, account fake e “siti-specchio”.
Rispetto alla campagna elettorale precedente con Hillary Clinton come frontwoman, il Partito democratico ha adottato una strategia di marketing politico online più efficace, in grado di rivaleggiare con quella trumpista. Si è trattato della campagna più digitale della storia; e gli spin doctor dem, pur sempre prevalentemente concentrati sugli spot televisivi, hanno deciso stavolta di tallonare da vicino il Partito repubblicano trumpizzato anche sul terreno dei social media. Sul web il presidente uscente, con i suoi Pac e sponsor, ha investito un totale di 240 milioni di dollari, di cui 137 per la pubblicità elettorale su Facebook, che era stata la sua piattaforma comunicativa regina nella precedente elezione (con i correlati scandali, a partire dall’affaire Cambridge Analytica). Mentre Biden e la sua rete di finanziatori hanno speso per l’advertising su Internet 181,2 milioni di dollari, di cui 31,5 su Facebook (dati in ulteriore aggiornamento; fonte: Online Transparency Project della New York University). Un salto di qualità – naturalmente costoso – rispetto al passato, che ha consentito di ricorrere a tecniche di profilazione delle comunicazioni da inviare ai votanti in grado di rivaleggiare con i fattoidi, le fake news e il “flaming” (i messaggi offensivi o sopra le righe finalizzati ad accendere la rissa sui social) della propaganda digitale trumpista. Un altro segno – almeno in apparenza – di mutamento della direzione del vento a cui sembra finalmente di assistere è un’assunzione di maggiore responsabilità da parte dei vertici del capitalismo delle piattaforme. In questo appuntamento politico sono infatti diventati un po’ più “editori”, decidendo di intervenire su alcuni contenuti falsi, stoppandoli o segnalandoli, e contrastando le manifestazioni più plateali e virali della disinformazione populista.
Ma quelli che l’ex vice di Barack Obama si troverà davanti sono, davvero e in profondità, degli Stati disUniti d’America. Sui quali il Covid agisce come un catalizzatore degli effetti di decenni di neoliberismo smodato e di incremento senza sosta delle disuguaglianze e delle divaricazioni sociali. Ed ecco, allora, che un fantasma – molto concreto – si aggira per l’Occidente, quello del formarsi di una vasta “neoplebe”. Un soggetto di non facile definizione, disomogeneo e composto di figure e ceti differenti, derivante innanzitutto dal blocco della mobilità sociale e dalla disintegrazione delle classi medie – i due processi su cui, nel dibattito italiano, cercano spesso di richiamare l’attenzione Massimo Cacciari e Romano Prodi. Un fenomeno che tiene insieme la destabilizzazione della situazione materiale di vita di tanti e la paura della perdita dello status (che, nel caso americano, si somma a un clima d’opinione assai teso, collegato alle guerre culturali e alle battaglie identitarie che imperversano ormai da parecchio).
Un tempo la sinistra sapeva mettere in campo un’azione politico-culturale di tipo pedagogico verso le fasce popolari e quelle più fragili. Oggi, invece, fatica a capire quanto si muove in tutto un pezzo di quelle che erano le sue constituency elettorali. E senza «intellettuali popolari» si spalancano le praterie ai politici populisti. L’ampliamento di una neoplebe incompresa nelle sue ragioni scatena altra rabbia in un contesto di crisi pesantissima delle istituzioni formali (e informali) delle democrazie liberal-rappresentative, il cui pilastro ha coinciso proprio con la possibilità di estendere il numero di coloro che riuscivano a migliorare le proprie condizioni esistenziali (e culturali) entrando a far parte delle classi medie. Da tempo non è più così, e il coronavirus rischia di essere l’agente di un’apocalisse annunciata anche dal punto di vista sociopolitico. Con il pericolo assai reale dell’arrivo di pifferai magici imprevisti e di nuovi profeti di un iperpopulismo ancora più sfrenato, che può sempre contare sulle scorciatoie comunicative (e cognitive) della disintermediazione.