La Politica agricola comune (Pac) muove 390 miliardi per i prossimi sette anni. E le lobby dei grandi proprietari vogliono continuare a imporre produzioni intensive e inquinanti. Così il green new deal rischia di fallire

Dida-dida
Non c’è soltanto l’opposizione di alcuni Paesi dell’Est Europa o l’emergenza Covid a mettere in forse l’impianto della rivoluzione verde presentata dalla Commissione europea come la chiave di volta del suo mandato. Ma non c’entrano le grandi aziende automobilistiche o gli inquinatori seriali. È invece l’accordo sulla nuova Politica agricola comune che Commissione, Parlamento e Consiglio dovranno negoziare e approvare nelle prossime settimane, il tallone d’Achille del Green Deal.

Nonostante le rassicurazioni delle grandi lobby agricole nazionali, Confagricoltura e Coldiretti incluse, le due proposte sulla Pac 2023-2030 varate finora dal Parlamento e dal Consiglio di ecosostenibile hanno poco. A dirlo senza remore è stato lo stesso vice presidente della Commissione Frans Timmermans, incaricato della transizione ambientale: «Vogliono continuare con una politica agricola che non è sostenibile e che non può andare avanti così», ha detto in una recente intervista alla televisione tedesca Tagessschau, parlando delle negoziazioni tra i 27 Paesi e il l’Europarlamento. E non ha escluso che la Commissione finisca per ritirare la propria proposta - la più verde delle tre - se un accordo in linea con la transizione verde alla fine non verrà raggiunto.

Ma andiamo per gradi. La politica agricola comune, accusata da decenni di inefficienza e ampia corruzione, è il più grande programma di sussidi diretti esistente del mondo: ben 390 miliardi di euro, oltre un terzo del bilancio comunitario: si tratta, pochi se ne rendono conto, di sovvenzioni superiori a quelle contenute nel Recovery fund, che si fermano a 290 miliardi di euro.

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Un motivo c’è. Nei corridoi di Bruxelles si scherza, ma non troppo, che la Comunità europea, antesignana dell’Unione, sia nata per permettere alla Francia di esportare la sua agricoltura e alla Germania la sua industria. Di fatto, l’obiettivo del programma di sussidi agricoli era quello di garantire la sicurezza alimentare europea e la Francia ne è sempre stato il principale beneficiario, seguita da Germania, Spagna e Italia. Nel corso dei decenni, l’obiettivo iniziale si è perso di vista: la sicurezza alimentare degli europei è di fatto stata messa al servizio delle grandi aziende agricole che mirano soprattutto al dominio dei mercati mondiali, forti dei sussidi garantiti loro dai cittadini. Come dice il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, «piccolo non è sempre bello», e i piccoli contadini, a vantaggio dei quali era sorto il programma, sono ora le vittime dell’agricoltura industrializzata promossa dalla Pac.

Secondo Eurostat, i contadini dell’Unione sono diminuiti tra il 2003 e il 2013 di oltre un quarto: sono scomparse 4,2 milioni di aziende di cui l’85 percento disponeva di meno di cinque ettari di terre agricole. Le perdite maggiori si sono avute in Polonia, Romania e Italia (dove si sono perse 600mila aziende agricole). A cambiare non è stata l’estensione complessiva: sono cresciute del 18 per cento le aziende con oltre 100 ettari. Il risultato è che oggi il 20 per cento delle aziende agricole europee intasca l’80 per cento dei sussidi Pac.

Il fenomeno è incoraggiato dalla struttura stessa della Pac, che lega i sussidi all’estensione del terreno e non a quanti la coltivano o alla produttività e nemmeno alle modalità di produzione: più terra agricola (anche non coltivata), più sussidi, al punto che molti imprenditori usano i sussidi europei solo per comprare terra aggiuntiva, denuncia Antonio Onorati, membro del Coordinamento europeo di Via Campesina. Col tempo, si sono formate storture macroscopiche: il denaro dei cittadini europei è finito nelle tasche di alcuni dei più grandi latifondisti moderni, dalla regina d’Inghilterra al principe di Monaco, nelle casse di colossi dolciari come la tedesca Haribo e di produttori di asfalto (perché costruiscono infrastrutture utili all’agricoltura) o, addirittura, a politici-imprenditori dell’Est, come il premier ceco Andrej Babiš, il più grande imprenditore agricolo d’Europa. L’agricoltura europea è stata di fatto appaltata alla grande industria, alla produzione di massa e ai grandi affari.

Se questa situazione, in cui a beneficiare dei sussidi europei sono soprattutto le élite imprenditoriali, fino ad un paio di anni fa passava relativamente inosservata, adesso, complice la rivoluzione verde e il bisogno di denaro fresco richiesto dall’emergenza del Covid, è tollerabile a fatica. E difatti anche i giovani dei Fridays For Future, capitanati da Greta Thunberg, si sono scagliati contro questa Pac “anni Novanta” che, da una parte, mina alle basi la questione della solidarietà sociale e la bontà di finanziamenti pubblici destinati a mantenere competitive a livello globale aziende che non lo sarebbero (a detrimento, tra l’altro, della produzione agricola di quel Nord Africa che l’Europa dice di volere sostenere) e, dall’altra, permette all’agricoltura di massa di continuare a inquinare, a deturpare l’ambiente e a uccidere la biodiversità. Il 17 per cento delle emissioni di gas a effetto serra viene prodotto dal settore dell’allevamento, una percentuale cresciuta del 6 per cento tra il 2007 e il 2018 grazie agli allevamenti intensivi. Il numero di farfalle, api e uccelli è in declino a causa della diminuzione di aeree non coltivate, e questo nonostante il lavoro degli impollinatori sia cruciale per l’84 per cento dei raccolti, scrive l’Agenzia europea per l’ambiente.

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La scadenza della vecchia Pac settennale proprio nel 2020 sembrava arrivare al momento giusto: in tempo per rinnovarsi in linea con le attese di questo decennio verde. Ma invece, salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, non sarà così.

La Commissione aveva già preparato la sua nuova proposta di Pac nel 2018, durante la scorsa legislatura, ben prima del varo della nuova politica verde. A maggio scorso aveva poi pubblicato un documento per spiegare come quella politica potrebbe diventare compatibile con il Green Deal e con la sua strategia “dalla fattoria alla forchetta”, che mira a costruire un sistema alimentare sostenibile sia sotto il profilo ambientale sia sotto quello sociale, con l’aiuto di Parlamento e Consiglio.

Questi due però sono andati avanti per la loro strada, e lo scorso ottobre hanno messo insieme proposte ancora rivolte a massimizzare la produzione e i profitti dell’industria agricola, non certo a promuovere la rivoluzione ambientale. «La Pac è sostenuta da una rete di interessi che briga da mesi per bloccare ogni cambiamento», spiega, carte alla mano, Nina Holland di Corporate Europe Observatory, l’ong che si occupa di lobby a Bruxelles: «Si tratta di un gruppo molto vario, tenuto insieme dalla volontà di perpetuare il vecchio e redditizio sistema di produzione e di distribuzione dei sussidi. Ci sono ministri dell’Agricoltura, burocrati della direzione generale dell’Agricoltura, la maggioranza del Comitato agricoltura nel Parlamento europeo e la potentissima lobby dell’agro business europeo Copa-Cogeca». Questa volta il Parlamento, e in particolare i tre partiti della maggioranza - popolari, socialisti e liberali - è stato meno ambizioso nella sua proposta della Commissione, anche se, come spesso succede a Bruxelles, sono i capi di Stato riuniti nel Consiglio che proprio non ne vogliono sapere di sottomettere i sussidi diretti a misure ambientali.

I dettagli della politica agricola comune sono tanti e complessi. Tra le misure più significative, la Commissione aveva chiesto che almeno il 40 per cento del bilancio complessivo della Pac contribuisse all’azione contro il cambiamento climatico grazie non solo a misure contenute nei fondi per lo sviluppo rurale, ma anche a eco-schemi a cui fossero sottoposte le sovvenzioni dirette agli Stati. Nella proposta di Strasburgo, entrambe le componenti della Pac (fondi per sviluppo rurale e sovvenzioni agli Stati) dovrebbero essere vincolate per il 30 per cento a misure eco-sostenibili, mentre per il Consiglio solo per il 20 per cento e, nel caso in cui le misure ambientali eccedessero il 30 per cento dei fondi per lo sviluppo rurale, anche meno. Il Parlamento, dove siedono molti deputati con interessi diretti in materia d’agricoltura, a fronte di quel 30 per cento vuole però dagli Stati membri l’obbligo di spendere il 60 per cento dei sussidi a sostegno del reddito degli agricoltori (non necessariamente piccoli) slegati da obiettivi ambientali, di fatto limitando al 40 per cento il massimale di utilizzo dei sussidi per misure verdi.

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Contestualmente, il l’Europarlamento ha bocciato gli emendamenti che volevano introdurre meccanismi per l’aumento dei sussidi in proporzione all’aumento della manodopera (e non a caso Confagricoltura elogia i meriti della tecnologia in agricoltura) e l’emendamento che avrebbe voluto scoraggiare gli allevamenti intensivi. Infine, Strasburgo chiede l’obbligo che i sussidi sottoposti agli eco-schemi siano vantaggiosi per le aziende e vuole l’eliminazione del divieto sia di prosciugare le torbiere (fondamentali nel stoccaggio del carbonio) sia di convertire in terre arabili le praterie che si trovano nelle zone protette.

Secondo i piani verdi della Commissione, entro il 2030 dovrebbero essere ridotti del 20 per cento i fertilizzanti, del 30 per cento le emissioni di gas serra anche nel settore agricolo, del 50 per cento i pesticidi e gli antibiotici negli allevamenti. Dovrebbe invece essere aumentato del 25 per cento il totale delle superfici agricole biologiche e del 10 per cento quelle ad alta diversità, e tutelato come zona protetta il 30 per cento delle terre e dei mari. Ma invece il Parlamento ha bocciato tutti gli emendamenti che avrebbero aiutato a raggiungere questi obiettivi. «I socialisti hanno rifiutato regole di condizionalità importanti, e sono stati contrari perfino alla rotazione delle colture, fondamentale per ridurre i pesticidi», denuncia Benoit Biteau, agricoltore francese e nuovo europarlamentare verde, membro della Commissione agricoltura: «Una grande delusione. Questa Pac è quella dell’ultima chance per la nostra agricoltura e per i contadini che vivono del loro mestiere».

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