Conflitti ignorati
Una strage di scolari in Camerun e quel sangue africano che non vogliamo vedere
Un attentato contro i giovani studenti di Kumba è l’ennesimo orrore di un Paese senza pace. E un atto che chiama in causa la comunità internazionale e le responsabilità post-coloniali
È un weekend come un altro, quello del 24 ottobre. Come qualsiasi domenica mattina giro a vuoto sui social. Tra le storie di amici e contenuti vacui mi ritrovo improvvisamente travolta da un bagno di sangue. Un sangue geograficamente lontano ma che in un gradiente significativo corre nelle mie vene. È un video girato in una scuola a Kumba quello che pubblica mia zia, i ragazzi sono poco più giovani di me, stremati a terra tra i banchi di scuola, le aule grigie sono macabramente decorate da macchie color terra d’ombra e rosso scarlatto, in sottofondo si sentono le urla degli insegnanti. Sabato muoiono sette ragazzi, dodici sono feriti, eppure loro sono solo le ultime vittime dell’ennesimo conflitto che strazia il Camerun o meglio, il Cameroon. Perché la colpa di questi ragazzi, punibile con la morte, è quella di trovarsi in mezzo ad uno scontro aperto da quattro anni, nelle regioni anglofone del paese. Scontro che conta più di tremila caduti e centinaia di migliaia di deportati.
Dopo la dominazione tedesca, finita con la sconfitta della Germania durante la prima guerra mondiale, il Camerun subisce una scissione, per l’80 per cento è colonia francese mentre le regioni occidentali, confinanti con la Nigeria, finiscono in mani britanniche. Raggiunge l’indipendenza negli anni Sessanta, riunificandosi ma mantenendo il bilinguismo. È attualmente una repubblica democratica, guidata dal presidente francofono Paul Biya , in carica dal 1982, con vittorie elettorali raramente inferiori al 70 per cento.
Il conflitto nasce nel 2016, inizialmente si tratta della contestazione pacifica di insegnati e avvocati anglofoni di fronte alla ricollocazione sistematica di giudici e professori di lingua francese nei territori occidentali. L’obbiettivo delle proteste è quello di denunciare come questo processo intralci il diritto allo studio e la possibilità di processi regolari per i cittadini anglofoni. Il malcontento è radicato e porta presto alla formazione di gruppi secessionisti, i quali rivendicano nel 2017 l’indipendenza del nuovo stato di Ambazonia, non riconosciuto dalle autorità camerunensi. Tra i militanti separatisti e l’esercito lo scontro è aperto, nonostante i tentativi diplomatici di cardinali e del primo ministro, gli appelli internazionali alla pace, il conflitto continua. Mentre la politica del presidente è quella di un silenzio assoluto, che porta avanti un decennale governo caratterizzato da non decisioni e da prolungate assenze che hanno portato nell’ultimo anno a dubitare della sua esistenza in vita. Anche di fronte l’emergenza covid-19, l’unica misura di sicurezza applicata nel Paese è stata la chiusura degli aeroporti, fatta eccezione per i voli legati agli aiuti umanitari, che rimangono però bloccati nelle regioni anglofone, dove la guerra civile ha causato la distruzione di 115 ospedali.
È in questo contesto geopolitico intricato, dimenticato e oscurato che matura l’atto terroristico del 24 ottobre che attualmente non è stato rivendicato, nonostante le autorità accusino i gruppi separatisti. Il lutto delle famiglie si manifesta per le strade della città, le scuole sono vuote. Le informazioni riguardo l’accaduto non sono chiare, ciò che è evidente sono le conseguenze. È il dolore e la paura di persone esasperate da un conflitto che sembra implacabile, persone che per preservare la propria vita rinunciano ad un’istruzione già compromessa dalla dominazione francofona e dalla corruzione diffusa in tutti gli organi istituzionali del paese. Allora i nostri carnefici sconosciuti rimangono senza volto. Le vittime sono troppo spaventate per descrivere i loro aguzzini, nessuno li difenderebbe.
Il dubbio che sorge spontaneo, dinnanzi a fatti del genere, è il seguente: quali sono le ragioni di una così scarsa copertura mediatica? Le notizie sono accessibili, Amnesty International e diverse emittenti francesi e tedesche denunciano l’accaduto tempestivamente, ma sono notizie che vanno ricercate, approfondimenti accessibili solo a chi è già al corrente degli avvenimenti perché interessato o toccato personalmente dalla situazione. Perché l’ennesima tragedia di un Paese del quale raramente si è consapevoli dell’esistenza non tocca le prime pagine internazionali, si sa, tutta l’Africa è dilaniata dai conflitti ed agli occhi dei lettori d’oltre mediterraneo nomi di luoghi e gruppi etnici e terroristici si mescolano e diventano la banale definizione di un continente intero. La nostra parte di mondo, invasa da fuochi di conflitti perenni, di pandemia, di terrorismo ignora le storie di quei bambini, non solo per assenza di pietà ma per lucida convenienza, non solo perché la logica mainstream dell’informazione non ha il passo lungo della complessità, ma perché quei corpi è uno schiaffo in pieno volto all’Europa, alle sue responsabilità post-coloniali. Poco importa delle peculiarità specifiche di universi lontani, eppure non mi sembra che Kumba sia molto più distante dall’Italia di quanto non sia mai stata Columbine.