Il ghetto. La mamma. Il basket. Il rap. Il Covid. La Bibbia. La polizia. La vita dell'uomo la cui morte sta cambiando la Storia degli Usa

6782-0QC6D41A-jpg
La polizia riceve una chiamata da Cup Food, un negozio di alimentari di Powderhorn Park a Minneapolis, su Chicago Avenue. Sono le 20.01 del 25 maggio 2020: «Uhm… è arrivato uno nel negozio con una banconota falsa. Ce ne siamo accorti prima che uscisse… Siamo usciti e ora è seduto in macchina», dice il commesso minorenne, secondo la trascrizione della registrazione. «Abbiamo chiesto che riconsegnasse le sigarette, ma non vuole. È ubriaco, e non ha il controllo di se stesso. Non si sta comportando bene». «Lo descriva». «È alto, calvo… alto circa due metri». «È bianco, nero, nativo, ispanico, asiatico?». «Qualcosa del genere», risponde il ragazzo. «Quale? Bianco, nero, nativo, ispanico, asiatico?». «No, è nero», dice.

Pochi minuti dopo arriva una volante. George Perry Floyd Jr., 46 anni, cinque figli, è nella sua auto insieme ad altre due persone. Gli agenti Derek Chauvin (che ha lavorato come guardia di sicurezza nello stesso club di salsa in cui ha prestato servizio anche George Perry Floyd Jr., con la stessa mansione), J.A. Kueng e Thomas Lane lo tirano fuori, lo ammanettano e cercano di farlo entrare nella volante. Lui si ribella, dice la deposizione dei poliziotti. Alle 20.19 lo strattonano fuori dalla volante e lo atterrano. L’agente Chauvin gli schiaccia il viso e gli preme il ginocchio sul collo, per soffocarlo. George Perry Floyd Jr., da terra, nomina sua madre, chiama il suo nome, dice di non riuscire a respirare. Dopo 5.53 minuti in quella posizione, alle 20.24, George Perry Floyd Jr. smette di respirare. L’agente Chauvin gli mantiene il ginocchio sul collo per altri 2.46 minuti. George viene portato in ospedale, dove viene dichiarato morto. Sono le 21.25.
[[ge:rep-locali:espresso:285345725]]
È sul corpo che la Storia si muove - minaccia, o promette di farlo. Non sulle idee, non sulle parole, a cui è affidato il compito di enumerare le ferite. Il corpo, ora esposto senza vita, diventa mappa, alfabeto osceno senza il quale è impossibile nominare la rabbia che muove la Storia. Il corpo soffocato di George Perry Floyd Jr. segna la sproporzione tra le aspettative di ogni esistenza e la definitività della morte, e perciò chiama alla rivolta, cambiando forse la storia degli Stati Uniti e del mondo.

«Voglio essere grande, voglio toccare il mondo», diceva il diciassettenne George Perry Floyd Jr. all’amico Jonathan Veal, alla fine dell’11th grade, prima di diplomarsi. «Toccare il mondo», coincidere con la totalità di ciò che esiste, sentire la potenza di essere vivo: forse per lui significava giocare nel Nba, o nella Nfl, diventare un campione. Era forte, sia nel basket sia nel football americano. Michael Hickey, l’allenatore della squadra di football della Yates High School dove George si è diplomato, dice che era uno dei più forti, insieme a Oscar Smallwood, che poi è andato a giocare nei Texas Tech e a Jerald Moore, che poi è andato a giocare nella Nfl. Sarebbe potuto diventare una star dello sport, lo dicevano tutti.

George nasce in North Carolina nell’autunno del 1973. Presto i suoi genitori divorziano e sua madre, Larcenia “Cissy” Jones Floyd, prende i sette figli e si trasferisce a Houston, in Texas, a Third Ward, un quartiere storico, impregnato di orgoglio nero, l’unico posto di tutto il Texas con una banca di proprietà di neri. È lo stesso quartiere in cui, otto anni più tardi, crescerà Beyoncé, lo stesso cantato da Drake. George cresce nelle case popolari di Bricks, nel complesso di Cuney Homes, seicento appartamenti schiacciati in un’infinita colata di cemento, insieme a delinquenti e sbandati, a povertà, droga, gang e violenza. È un quartiere durissimo e molti degli amici di infanzia di George muoiono prima dei vent’anni.

Da piccolo, a Bricks, lo chiamano Perry. È un bambino felice e sincero, e rimarrà una persona sorridente per tutta la vita. Tutti, quando parlano di lui, ricordano la sua carica travolgente, la parlantina, l’energia che radunava folle. Cissy, la madre, è una specie di matrona di Bricks: cresce i sette figli, i nipoti, e molti dei figli dei vicini di casa. La loro casa modesta è uno dei punti di riferimento del quartiere. Gli amici di George cenano a casa, si fermano a dormire. Cissy, dicono i vicini, è la madre di molte case di Cuney Homes.

La testimonianza
Riapre New York e nel frattempo è cambiato il mondo
22/6/2020

George Floyd, fin da piccolo, gioca a basket nel campetto di quartiere, ed è forte, il più forte di tutti, il più alto di tutti. A undici anni è già un metro e ottanta. A quell’età cambia nome, non vuole più essere chiamato con il cognome del padre, che disprezza per aver lasciato la madre. La gente lo chiama Big Floyd, per la statura e per il buon carattere. È un ragazzone che non litiga mai con nessuno. Michael Hickey, l’allenatore di football, dice che occorre tirargli fuori la cattiveria, sul campo, perché «non gli piacciono i contrasti». Quando perdono una partita, Big Floyd è il primo, negli spogliatoi, a tirare fuori una battuta, o una barzelletta, perché «non sopportava che ci si sentisse giù per troppo tempo». George frequenta il liceo in fondo alla strada, la Jack Yates High School, e a sedici anni è già alto due metri. Presto diventa uno dei campioni di basket e football della scuola e della città. Grazie a lui, nel 1992, la sua squadra di football si qualifica per il campionato statale. Tutti conoscono il suo numero di maglia, l’88. Lo sport per lui è tutto, sogna di diventare un campione. È talmente forte che vince una borsa di studio per iscriversi all’università, al South Florida State College, che altrimenti non si sarebbe mai potuto permettere. Saluta i fratelli e Cissy, e parte per la Florida, per due anni gioca lì. Ci prova, lavora duro, ma non ci riesce. Dopo due anni torna in Texas e si iscrive al campus Kingsville della Texas A&M University. Ma anche lì non dura molto. Va avanti e indietro da Houston, avanti e indietro da casa della madre e dal suo quartiere, Third Ward, che gli manca, e presto lascia il college.

È in quel periodo che incontra DJ Screw, il leggendario produttore discografico, una specie di mito nel circuito rap e hiphop di Houston. DJ Screw invita rapper giovanissimi dei sobborghi a fare freestyle, e crea delle mixtapes che diventano popolarissime tra i giovani di Houston. George, come nome d’arte, ovviamente sceglie Big Floyd. Ha una voce calda, bassa, rallentata, e le sue rime sono tutte sull’essere un Bricker, su macchine truccate con cerchioni modificati, sulla droga, sulle lame e sulla vita di strada. «Amico, sta scendendo, sai cosa intendo? È Big Floyd che fa freestyle. Sta scendendo come un negro, sai cosa sto dicendo? Guardami strisciare in basso come un ragno negro. Benvenuti nel ghetto. È Third Ward, Texas. Ragazzi che comprano lame sui loro mix negri». Queste sono sue parole di quegli anni, a vent’anni.

Ed è allora, nel circuito di DJ Screw, che la sua vita prende un altro giro. Nel 1997 ha il primo incontro con la polizia. Per più di dieci anni, dai 23 ai 34 anni, fa dentro e fuori di prigione. La prima è per uno spaccio da 10 dollari, che gli costa dieci mesi. Il caso più grave è del 2008: furto con scasso, condannato a cinque anni. Ne sconta quattro, nel 2013 è fuori.

L’ultima uscita dal carcere è il momento in cui George decide di cambiare vita. Diventa religioso, capisce che può sfruttare gli errori che ha commesso per aiutare gli altri. È l’ultima figlia, Gianna, nata da poco, a fargli cambiare strada. Inizia a frequentare la Resurrection Houston, una chiesa di Cuney Homes, che aiuta i ragazzi dei Bricks. Così, Big Floyd viene coinvolto in un programma rieducativo nel Minnesota, dove si trasferisce per trovare un lavoro pulito. È pronto per un nuovo inizio, per «una storia di redenzione», come dice di lui il pastore Ngwolo.

George va a vivere in un piccolo appartamento insieme a due coinquilini, in un quartiere verde e tranquillo di Minneapolis, a est di St. Louis Park. Presto inizia a lavorare come guardia di sicurezza per l’Esercito della Salvezza, in una casa per senzatetto del centro cittadino, l’Harbour Light Center. Tutti parlano di lui come di un uomo talmente premuroso da voler accompagnare, sempre, ognuno alla sua auto. Nel frattempo Big Floyd cerca anche altro. Risponde a un annuncio come buttafuori presso il Conga Latin Bistro, un ristorante-discoteca in cui si balla la salsa. Jovanni Thunstrom, il proprietario, dice che George è parte della famiglia. «Arriva presto e stacca tardi. E, anche se ci ha provato, non ha mai imparato a ballare la salsa. È uno di quegli uomini che ti stringe la mano con entrambe le sue, e si china per salutarti». Big Floyd è così. Ma dopo un anno dal suo arrivo in Minnesota la madre Cissy muore e gli crolla il mondo addosso. Lei era il suo unico, vero, punto di riferimento, la sua sicurezza. Si tatua il suo nome vicino all’ombelico, “Cissy”, e inizia a dormire con una Bibbia accanto al letto. Spesso, prima di addormentarsi, ne legge alcune pagine ad alta voce. Poi si fidanza, di nuovo.
A inizio aprile del 2020 si ammala di Coronavirus. Prega, pensa a Cissy. Guarisce. Uscito di casa, si trasferisce dalla nuova compagna. Riprende il lavoro come guardia di sicurezza. Il 25 maggio entra da Cup Food per comprare le sigarette, con una banconota falsa da 20 dollari. Il commesso minorenne chiama la polizia. Arriva l’ex collega Derek Chauvin, che lo uccide soffocandolo a terra con un ginocchio, mentre lui implora il nome della madre. Non respiro, dice.

Seguo in streaming il funerale, nella chiesa di Fountain of Praise di Houston. Il reverendo Al Sharpton, alla fine della funzione dice: «Gli do la benedizione. Ma devo benedire anche altre famiglie. La madre di Trayvon Martin si può alzare in piedi? La madre di Eric Garner si può alzare in piedi? La sorella di Bothan Jean? La famiglia di Pamela Turner? Il padre di Michael Brown, di Ferguson, Missouri? Il padre di Ahmaud Arbery? Tutte queste famiglie sono venute a stare con questa, perché conoscono il dolore che soffrirà». La famiglia di George Floyd è parte di una comunità più grande, quella delle vittime della violenza dello Stato e della polizia. Dalla lista degli uccisi ne mancano tantissimi. Jordan Davis, per esempio. Rekia Boyd, Freddie Gray, Tamir Rice. E tantissimi altri. Poi il reverendo continua: «Hai combattuto una bella battaglia, George. Hai mantenuto la fede. Hai finito il tuo corso. Vai avanti e riposati, adesso. Vai a vedere la mamma, adesso. Continueremo a combattere. Continueremo a combattere. Continueremo a combattere. Continueremo a combattere».
Global Revolution
Angela Davis: «È ora di costruire un movimento globale, contro il razzismo dagli Usa all'Italia»
19/6/2020

Cinquantadue anni fa, dopo le rivolte del 1967 -’68, il rapporto della Commissione Kerner scrisse che gli Stati Uniti «si stanno muovendo verso due società: una nera, una bianca, separata e disuguale». Oggi è ancora così: il peso del dolore e della povertà ricade ancora su spalle nere, in termini di disoccupazione, mortalità infantile, mobilità sociale, accesso a case dignitose, a cure mediche (di Covid, per esempio, sono morti tre afroamericani per ogni americano bianco), all’educazione. C’è, di fatto, apartheid: fisica e culturale. Nel suo corpo morto, il nome di George Floyd si fa alfabeto delle ineguaglianze della società che le ha prodotte. Il suo amico d’infanzia, Jonathan Veal, così ha reagito alla notizia della morte di Big Floyd: «Quando ho capito che era il mio amico sono stato travolto da un’ondata di emozioni, non dormivo, continuavo a pensare a quello che era successo. Poi tutto è diventato globale. Non ci potevo credere. Pensavo: wow, sta succedendo davvero. Sta toccando il mondo! George sta toccando il mondo. Ho pensato, wow».