En tout cas, vraiment… kabisa kabisa!
In ogni caso, davvero… assolutamente!
È la frase più ricorrente, scandita ad alta voce passeggiando per la città di Goma, sussurrata a fil di labbra lungo le piste di terra rossa che corrono verso nord, gridata nei piccoli chioschi fatti di legno e lamiera che sono l’equivalente dei nostri supermercati, bisbigliata da miliziani tra le ombre della foresta. Siamo in Kivu, nord est del Congo.
«En tout cas, vraiment… kabisa kabisa!», rappresenta il rassegnato fatalismo dei congolesi, vessati e forgiati da decenni di guerre e privazioni e ricorrenti epidemie di Ebola o morbillo. Le guerre mondiali africane, le continue ribellioni, la grande ricchezza del sottosuolo… e una popolazione che sopravvive con meno di due dollari al giorno. Un territorio unico al mondo, per tante ragioni.
Il paradiso, a fianco dell’inferno. Così Chrispin Mvano, giornalista congolese di Goma, descriveva il Masisi e il Parco del Virunga, Patrimonio dell’Unesco, mentre lo attraversavamo a bordo di un vecchio Toyota. Un territorio gigantesco e impervio, di una bellezza folgorante, fatto di montagne, foreste e vulcani che guardano il sonnacchioso lago Kivu.
Nord Kivu, cerniera fra Congo, Ruanda e Uganda, ricchissimo di risorse minerarie e naturali, dal coltan per l’hi tech al pregiato legname, dalla fauna selvatica, fino a oro e uranio. Una benedizione per i congolesi, una dannazione per gli stessi.
Sì, perché queste risorse hanno scatenato da tempo gli appetiti dei paesi vicini e di potenze lontane.
Hanno permesso la nascita e l’ascesa di milizie che tengono in ostaggio la regione da vent’anni. Complice l’assenza dello Stato e degli apparati amministrativi, e di un esercito che, nonostante le riforme, è ben lungi dagli standard occidentali e non riesce a garantire la sicurezza. Un soldato guadagna in media 80 dollari al mese. Fino a qualche anno fa, prima della riforma dell’esercito, colonnelli senza scrupoli reclutavano giovani a fronte di 100 dollari. In cambio, l’assegnazione a un battaglione, un’uniforme, se andava bene, e un fucile d’assalto kalashnikov. Peccato che, dopo qualche mese, quel giovane militare se ne andava, raggiungeva nella foresta miliziani ribelli, e si dava al saccheggio. Molto più redditizio. Le opportunità sono tante: i gruppi ribelli in zona sono decine. Quasi tutti dichiarano di combattere per la democrazia e la libertà. In realtà uccidono per il controllo del territorio e le sue infinite ricchezze. La dura legge del fucile è l’unica cosa che conta qui.
A Goma vi sono in media un centinaio di Ong congolesi e internazionali. «La capitale mondiale delle Ong», ha scritto qualcuno. Così come il Kivu, secondo qualcun altro, sarebbe «il paese degli stupri». Tutto (parzialmente) vero. Il Congo è questo, ma anche molto altro. C’è molto assistenzialismo, in parte alimentato dagli operatori umanitari internazionali, ma anche tanta voglia di fare. Goma, 2 milioni di abitanti, è operosa, si sveglia alle 4 del mattino e, sfidando l’assenza di infrastrutture, spesso anche acqua e luce, inizia a scaldare i motori, a lubrificare una economia informale fatta di piccolo commercio, di trasporti improvvisati, di creativa, quotidiana improvvisazione. Ma anche di piccoli caffè, case di moda, un festival musicale che guarda caso si chiama “Amani”, pace. La costituzione congolese ha 14 articoli, il 15esimo, non scritto, è il più potente: “Debrouillez-vous!” Arrangiatevi! Così ci si arrangia. Ogni giorno. A tutte le età, ovunque.
Jeanette Vitimya Masika, 31 anni, caporale dell’esercito, in forza al battaglione a Minova, sulle rive del lago Kivu, mi racconta che si sveglia tutte le mattine alle 4,30, cucina dei bignè fritti e va a venderli all’angolo della strada. Poi torna a casa, indossa l’uniforme e va in caserma. Doppio lavoro, l’unico modo per sostenere la famiglia, con 3 figli.
Spostandosi a nord, uscendo dalla capitale la situazione non migliora. Nel Masisi, zona mineraria, ricca di coltan e manganese, intere famiglie dipendono dall’estrazione dei ricchi minerali.
Patrick, 20 anni, minatore da 5, mi parla su una delle vette di Rubaya, piccolo villaggio nato e cresciuto grazie proprio al coltan. Patrick si sveglia alle 3, cammina per ore inerpicandosi sulle colline circostanti, raggiunge le miniere e scava. Scava per ore, sfida i continui crolli dei tunnel e porta a casa se va bene 5, 6 dollari al giorno. Trasportando sacchi da 10 kg che valgono mille dollari a chilo.
A controllare quelle miniere, i Maj Maj Nyatura, milizie popolari nate per proteggere la popolazione da altri ribelli, e trasformatisi in milizie e stati paralleli.
A Patrick chiedo se sappia che cosa sia quella sabbia nera che faticosamente raccoglie in sacchi di iuta. Dice che non lo sa. Non sa nulla del suo valore e del suo utilizzo. Non sa che il computer su cui sto scrivendo queste righe è fatto anche con quella preziosa polvere nera, il coltan.
Chi invece sa o intuisce il suo valore, sono i Maj Maj Nyatura che o controllano direttamente le miniere o più semplicemente organizzano piccoli e agili posti di blocco sulle strade che dalla miniera portano a Goma. Vuoi portare il coltan a Goma? Devi pagare. 50 dollari a passaggio, e il gioco è fatto. Effettuato il pagamento, il check point improvvisato evapora nella foresta.
Intanto Rubaya, il villaggio nato e cresciuto grazie alle miniere vive e sopravvive. Nell’unico bar - albergo del villaggio, una stamberga di legno a due piani dal sapore coloniale, al tramonto si radunano militari ubriachi che sorseggiano birra locale Primus, abbracciati a prostitute, con il kalashnikov sul tavolo, loschi faccendieri pronti a trafficare coltan fino in Ruanda.
Ogni tanto, anche qui, passano i convogli dei caschi blu dell’Onu, una delle missioni più numerose, costose e lunghe (e secondo i locali inutili) della storia delle Nazioni Unite. Quasi 17mila in tutto il paese. La prima della storia ad avere un mandato offensivo. Accadde nel 2013, all’epoca dell’ennesima ribellione, quella degli M23, formazione tutsi che riuscì a conquistare Goma. Una decisione del consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro diede l’ok ai caschi blu per attaccare i ribelli. Alla fine Goma fu liberata. Ma i cittadini congolesi sembravano non toccati: troppe ribellioni, troppi saccheggi e nulla sarebbe cambiato. Avevano ragione. E poi, in fondo, per loro, i caschi blu e noi “muzungu”, i bianchi, che vengono qui per salvarli, depredarli, istruirli, conquistarli, saremo sempre “altro”. Anche farfugliando il nostro stentato swahili. «En tout cas, vraiment, kabisa kabisa».
Il fatalismo qui comanda, quasi quanto il kalashnikov. Lo sanno bene i rangers del Parco del Virunga che quotidianamente combattono, e muoiono, contro gruppi armati e bracconieri. Lo sanno i cittadini di Beni, ancora più a nord, terrorizzati dalle incursioni del gruppo islamista ugandese Adf.
A chi conviene che il Congo esca da questa situazione?
Sostanzialmente a nessuno.
La fragilità economica, la porosità dei confini, l’assenza di un vero esercito rende il Kivu una terra di conquista. Chi vince qui? Chi, tristemente, imbraccia un kalashnikov. È questa la dura, spietata legge del Kivu. Alcuni anni fa, un giornalista della Bcc scambiò con un ribelle un cellulare per un Ak-47. Dura legge, ma lievemente flessibile. «En tout cas, vraiment, kabisa kabisa».