Mediterraneo
Il nuovo premier Dbeibah ha assicurato che metterà fine alla guerra civile. Per farlo dovrà però disarmare le potenti milizie e tenere buone Russia e Turchia
di Francesca Mannocchi
Sono passati sette anni dall’estate del 2014, l’anno della seconda guerra civile libica, quando le due coalizioni Alba Libica in Tripolitania e le truppe dell’operazione Dignità in Cirenaica sancirono la divisione di fatto in due sfere di influenza del paese nordafricano che si è cristallizzata fino a poche settimane fa. Per la prima volta, infatti, il mondo può osservare con cauto ottimismo gli eventi politici libici.
Lo scorso febbraio, a Ginevra, 74 delegati scelti dalle Nazioni Unite per il Libyan Political Dialogue Forum (Lpdf) hanno eletto quattro figure alla guida di un nuovo governo ad interim che ha il compito di restare in carica fino alla fine dell’anno e condurre il paese alle elezioni generali previste per il 24 dicembre.
A sorpresa il Forum Libico ha eletto la lista guidata da Abd al Hamid Dbeibah, un candidato considerato controverso dagli analisti e la cui lista, fino alla vigilia dell’incontro, non era considerata tra le papabili per la vittoria.
Sulla carta il neo insediato governo Dbeibah sostituisce sia il Gna, il governo della parte occidentale, presieduto da Fayez al-Sarraj e sostenuto dalla comunità internazionale, sia il governo di Tobruk di Abdallah al-Thani, con sede in Cirenaica, la parte orientale del paese di fatto sotto il controllo militare del generale Khalifa Haftar.
Sulle sue spalle la sfida di affermare il primo governo unitario del paese dopo sette anni.
Il 10 marzo scorso, a Sirte, 132 eletti alla Camera dei Rappresentanti hanno votato la fiducia a Dbeibah: «È finalmente giunto il momento di voltare pagina su guerre e divisioni e di voltarsi verso la riconciliazione e la costruzione. È tempo di risolvere le divergenze del paese in parlamento e non sul campo di battaglia», ha detto il nuovo premier.
La sfida è capire se queste parole di buon senso e saggezza bastino a fronteggiare le aspirazioni personali (armate) che hanno determinato dieci anni di guerre a varia intensità.
Dbeibah comincia dalle scelte simboliche sulla composizione del governo: ha nominato ministro degli Esteri Najla El Mangoush, una donna, un avvocato di Bengasi, una attivista per i diritti umani, che lasciò il paese nel 2013, due anni dopo la rivoluzione, per studiare negli Stati Uniti.
La nomina è una scommessa, Mangoush dovrà muoversi tra gli interessi di attori interni e attori esterni come la Turchia, la Russia e gli Emirati Arabi Uniti, impegnati nella divisione del paese nordafricano in sfere di influenza e alla ricerca di lucrativi contratti petroliferi e di ricostruzione.
Abd al Hamid Dbeibah è un uomo d’affari di Misurata, ha studiato in Canada dove si è specializzato in ingegneria e, una volta tornato in Libia, ha fatto parte della stretta cerchia dell’ex rais Muammar Gheddafi. È stato a lungo a capo di una società che gestisce imponenti progetti di costruzione.
Dbeibah ha beneficiato sia della sua prossimità con Gheddafi sia della posizione privilegiata della città di Misurata che ha vissuto un boom economico e industriale negli anni del regime.
La famiglia Dbeibah si è arricchita, ha accumulato risorse e dunque potere.
Tra gli anni Settanta e Ottanta Dbeibah ha ricoperto diversi incarichi ed è stato sindaco di Misurata.
Chi lo conosce lo descrive astuto, uno scaltro uomo d’affari che sa adattarsi alle fluide alleanze libiche e trovare posto nelle mutevoli circostanze politiche.
È stato gheddafiano ma si è schierato con i rivoluzionari nel 2011, quando ha capito che l’aria stava cambiando.
Ha dichiarato di voler partire dalla ricostruzione delle infrastrutture danneggiate da dieci anni di guerre e sa che avrà consenso solo se garantirà ai cittadini libici la soluzione dei problemi strutturali del paese: i servizi di base, l’unificazione della banca centrale libica e delle altre istituzioni statali divise - come il territorio - da più di un lustro di guerre.
Sa, Dbeibah, che l’altro cruciale problema per l’equilibrio (stavolta militare) in Libia è la presenza dei soldati stranieri. Le potenze estere che hanno appoggiato le due coalizioni che si sono fronteggiate in questi anni, la Turchia a supporto del governo di Tripoli e la Russia a sostegno di Haftar, hanno infatti schierato 20 mila combattenti nel paese che avrebbero dovuto ritirarsi in seguito al cessate il fuoco dello scorso ottobre (che vanno ad aggiungersi alle enormi quantità di armamenti spediti in Libia in violazione dell’embargo).
La famiglia Dbeibah è considerata vicina alla Turchia e alla Fratellanza Musulmana e l’influenza estera sul paese è uno dei nodi più difficili da sciogliere per il suo governo.
Quanto l’agenda degli alleati (o sarebbe meglio dire ex alleati?) influenzerà il nuovo governo unitario è presto per dirlo, Dbeibah si è impegnato, per esempio, a mantenere l’accordo marittimo stretto da Sarraj con Erdogan sui confini del Mediterraneo Orientale e i diritti di trivellazione. Allo stesso tempo, però, il suo esecutivo è appeso ai mercenari russi spediti da Putin in supporto al generale della Cirenaica. Negli anni passati le milizie che sostenevano Haftar hanno minato la stabilità del paese chiudendo e danneggiando pozzi e raffinerie e usando le armi per influenzare (leggasi minare) gli sforzi diplomatici.
Il caso più eclatante nel gennaio 2020. Mentre la comunità internazionale era riunita a Berlino in una conferenza che doveva sugellare un accordo tra Sarraj e Haftar, le milizie e le tribù legate al generale bloccarono i pozzi di petrolio. I sostenitori del generale alzavano la voce ricordando ai partecipanti della conferenza sia le rimostranze, sia la capacità operativa.
Haftar sfidò le Nazioni Unite, i pozzi rimasero inattivi per otto mesi, provocando alle casse dello stato una perdita di oltre otto miliardi di dollari.
Il governo deve ripristinare e aumentare la produzione di petrolio, da cui dipende l’intera economia libica sussidiata dalle entrate del petrolio. Oggi la produzione è tornata a 1,3 milioni di barili al giorno, ma l’obiettivo è raggiungere in sei mesi i 2,2 barili al giorno.
La scorsa settimana sono atterrati a Tripoli il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’ad di Eni Claudio Descalzi, i primi europei a incontrare il nuovo governo di unità nazionale.
Un segnale che l’Italia voglia tornare a ricoprire il Libia un ruolo che negli ultimi anni aveva smarrito, lasciando un vuoto riempito dalla Turchia. Oggetto dell’incontro, per la prima volta dopo anni, i progetti economici tra i due paesi: l’autostrada costiera (progetto da 1800 chilometri previsto dal trattato di amicizia italo libico del governo Berlusconi nel 2008).
Se e quando le aziende italiane potranno tornare a lavorare in sicurezza in Libia dipende da chi e come gestirà in Libia il potere delle armi.
È da qui che Dbeibah deve ripartire, prima ancora di annunciare grandi progetti infrastrutturali. È necessario che i mercenari stranieri lascino il paese ed è necessario, per la tenuta del suo esecutivo, capire quanto potere ricattatorio eserciteranno le milizie, arricchite e rese potenti da dieci anni di guerre. Difficile infatti immaginare che le milizie vogliano rinunciare al potere accumulato e usato come arma di intimidazione sui governi. Difficile anche immaginare che gli attori esteri vogliano rinunciare all’influenza acquisita negli ultimi due anni. Anni in cui l’Europa ha dimostrato di saper organizzare conferenze e sostenere governi ma non è stata all’altezza di saperli appoggiare nel tempo. Forse per la Libia, e l’Europa, è la volta buona di dimostrarlo.