Padre Bogdan, Oleva Parhomenko, Kateryna Skororvan, Vasili Antonyk. Sono in tanti ad essere fuggiti dall’hinterland di Kyiv quando hanno cominciato a sparare. E ora rientrano, cercando le loro case, che non ci sono più

È il momento del rientro nell'hinterland di Kyiv. Di contare i sopravvissuti. Di constatare che i risparmi di una vita sono andati in fumo insieme alla propria casa. Padre Bogdan pesta i vetri a terra, quello che resta della finestra della sua chiesa cristiana ortodossa della cittadina di Makariv, dedicata al vescovo ortodosso Rastovski. Alexsei, un parrocchiano che abita poco distante, sta prendendo le misure per rifarli. «L'ultima messa l'ho celebrata il 27 febbraio», dice in questa domenica prima di Pasqua: «Il 28 sono arrivati gli aerei russi, poi i carri armati e il mio villaggio, Makaverich, è finito sotto occupazione russa. Il giorno in cui hanno sparato al mio vicino mentre fumava in giardino ho deciso di andare via insieme a mia moglie».

Reportage
Intrappolati in Ucraina e costretti a combattere: «Non è la mia patria, non è la mia guerra»
31/3/2022

La Chiesa si trova a pochi metri dal ponte di accesso al paese. Le auto in entrata fanno lo slalom tra i due crateri creati dalle bombe alla fine di febbraio: ma tutta l'area impone un duro esercizio di sopravvivenza. «Siamo fuggite quando ancora i russi non ci sparavano contro», dice Oleva Parhomenko, 32 anni: «Mi sono rifugiata nella campagna a ovest, dove per trenta giorni ho dormito vestita, pronta a scappare ancora. I russi non volevano che ce ne andassimo, volevano tenerci tutti ostaggi quando hanno cominciato a subire perdite. Oggi sono tornata a Makariv e ho trovato il mio appartamento completamente distrutto».

 

TUTTI GLI ARTICOLI SULLA GUERRA IN UCRAINA

 

In questo villaggio e nelle sue frazioni a 40 chilometri da Kyiv, vivevano 15mila persone prima della guerra ma la maggior parte di loro è fuggita. Poco più di mille ha vissuto l'orrore del passaggio delle truppe russe in marcia verso Kyiv e dell'occupazione dei paesini di Andriivka e Lipyivka. Un'occupazione diventata sempre più cruenta man mano che l'ingresso a Kyiv stava fallendo, arrestato dall'esercito ucraino, dai partigiani e dai suoi propri errori nelle campagne intorno a Irpin. Secondo il sindaco Vadym Tokar il 40 per cento del villaggio di Makariv è distrutto e 132 persone sono state ritrovate cadaveri, civili o membri della resistenza.

 

Anche a Kateryna Skororvan e alla sua mamma l'artiglieria russa ha trasformato in rovine la villetta in campagna: «Sopravvive solo la cucina estiva e il garage», dice lei indicando la porta in metallo dipinta di verde. «Siamo diventate a tutti gli effetti delle senza fissa dimora», dice mentre versa le crocchette al pastore tedesco. Il cane è l'unico che continua a vivere a casa, in giardino.

 

Decine di cani senza padrone vagano alla ricerca di cibo per i villaggi e le campagne ucraine intorno a Kyiv: e non solo cani, anche gatti, polli, maiali, perfino cavalli. I padroni sono partiti, alcuni morti, le recinzioni distrutte. Skororvan offre un pasto a tutti. È il suo modo di aiutare. «Almeno io posso lavorare online e guadagnare un po' perché mi occupo di marketing digitale e parlo inglese», sospira. Internet non funziona nel villaggio ma è in piedi in gran parte della regione. Segno dei tempi, di questa guerra incastrata tra il secolo di ieri e quello di domani. «Mia madre, invece, era la maestra del Paese e ora nessuno va più a scuola», aggiunge: «Ricostruire la nostra casa non sarà facile».

La storia
Guerra in Ucraina, c’è un battaglione di bielorussi dissidenti che combatte con Kiev e contro Putin
4/4/2022

Vasili Antonyk, un viso tondo avvolto da una pelliccia bianca intrecciata da capelli e barba, da Makarov non si è mai mosso. «Non ho soldi, non ho più mia moglie e mio figlio è un chirurgo a Kyiv», dice: «Dove dovevo andare?». Ha passato un mese seduto sul divano in velluto marrone del suo salotto, due centrini in uncinetto posati sulla spalliera, le medicine appoggiate con ordine su un tavolino accanto, insieme alle forbicine per le unghie, la bottiglietta d'acqua e un orologio da polso col cinturino in pelle nera. «Ascoltavo i bombardamenti, pensavo, dormivo. Ho provato ad andare nello scantinato ma faceva troppo freddo». Il giorno che i russi sono entrati in casa sua ha detto loro che nell'epoca dell'Unione sovietica anche lui era autista di carri armati. Che poi è diventato psichiatra e che il figlio è un chirurgo a Kyiv. «Sono stati gentili con me», dice accanto al buco nella parete frontale della casa colpita da un razzo, a pochi metri la lapide per al sua tomba che è già pronta in giardino: «È Putin che è uno psicopatico, non i russi». La voce trema.

 

Nel villaggio non tutti sono convinti che i russi si siano ritirati definitivamente. Temono il ritorno e la vendetta. Sempre spietata. Quando ha messo piede fuori di casa, il 1 aprile, Antonyk ha riconosciuto subito il cadavere del suo vicino Viktor, 50 anni, colpito lungo la strada principale che fiancheggia il cimitero mentre tornava a casa dal lavoro in bicicletta. Colpito e ucciso da un cecchino. Senza che nessuno abbia ancora capito perché. Antonyk ha sentito lo sparo. Lo ricorda bene perché «è stato un colpo distinto, davanti casa». Il corpo di Viktor, autista di autobus, è rimasto a terra, incastrato nella bicicletta, poi ricoperto da una coperta di lana a scacchi rossi e gialli per tre settimane. I russi ne avevano minato il cadavere. Come quando in Afghanistan minavano i giocattoli. Per fare male. Per terrorizzare gli innocenti e ridurli in sottomissione. Nel cimitero non si può ancora entrare. Ci sono mine anche tra le tombe. I morti devono aspettare, e i vivi pure.

 

Mine e munizioni sono sparse un po' ovunque nell'area. Quando i russi si sono ritirati il 31 marzo hanno dato fuoco alle polveri, dopo averle ammassate nelle case dei cittadini. Ma nei cortili, nelle aie, tra i cespugli ci sono ancora munizioni di ogni tipo, mortai, proiettili, ordigni inesplosi. I campi di grano, ancora solo distese di fango, sono puntellati dalle casse verdi delle munizioni militari russe. E dalle trincee. Scavate fin dentro le case degli abitanti. Un cerchio dipinto di giallo sul cancello d'ingresso vuol dire che sono passati gli sminatori dell'esercito, che la famiglia può rientrare a casa. I militari sono a decine nelle strade, come i poliziotti. A bonificare il territorio e a valutare i danni.

 

Poco fuori il villaggio, nella frazione di Lipivka, Marina e Sergei raccolgono legna per riscaldarsi. In tutta la regione ancora non c'è acqua corrente, non c'è elettricità e nemmeno riscaldamento. Da sei settimane si vive col cappotto sempre addosso, tra neve e pioggia battente, con una temperatura intorno allo zero. L'umidità penetra nelle ossa e arriva al cervello. «Un nostro vicino aveva tirato una molotov contro i carro armati russi», dice lei: «Lo sono venuti a cercare in casa e l'hanno giustiziato». Nessuno ha più osato uscire di casa. «È molto fortunato il nostro amico Volodomyr di Kharkiv. Ci ha appena fatto sapere di essere in Sicilia, con i figli a scuola. È contento». Ha 65 anni. È potuto uscire dal Paese, a differenza di tutti gli uomini tra i 18 e i 60.