Avvocata e attivista, ha recitato nella serie di fantascienza nel ruolo di presidente della Terra. Nella realtà, la candidata dem ci riprova come Governatore della Georgia dopo aver perso in un’elezione funestata dai sospetti brogli. E c’è anche il suo nome tra quelli per la Casa Bianca

Una navicella spaziale vola attraverso lo spazio infinito. Poi atterra su un pianeta sconosciuto, dove ad attenderla c’è una dozzina di figure, tutte provenienti da pianeti e specie diverse. Poi, il portellone della nave spaziale si apre, e da lì scende una figura solenne, il presidente della Terra Unita. Quella che abbiamo appena descritto è una delle ultime scene del finale di stagione della serie tv “Star Trek: Discovery”. Fin qui, niente da segnalare. Non fosse che l’attrice chiamata dalla produzione non è un’attrice professionista ma una politica vera, di quelle che sono sui giornali e corrono per le elezioni di oggi: Stacey Abrams, candidata democratica alla carica di Governatore della Georgia alle elezioni del prossimo 8 novembre.

La scelta fatta dalla produzione di Star Trek, che ha selezionato per il ruolo di presidente del mondo intero una politica in attività, potrebbe sembrare un azzardo. E forse lo è. Eppure i produttori di Star Trek non sono i soli a pensare che Stacey Abrams, nonostante nel suo curriculum abbia collezionato più sconfitte che vittorie, sia una figura destinata a un ruolo di primo piano nella politica americana e mondiale dei prossimi anni. Il suo nome ricorre nelle liste (che, a onor del vero sono più un divertissement giornalistico che analisi vere) dei possibili candidati alla presidenza degli Stati Uniti nel 2024 o nel 2028. Lei stessa, comunque, ha detto più volte di avere intenzione di diventare presidente e ha anche fissato una data entro cui farlo, il 2040.

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Ma al di là di previsioni, ambizioni personali e scommesse, la cosa che rende Stacey Abrams uno dei nomi più interessanti della politica americana di questi anni è il tema su cui più di tutto insiste: il diritto di voto delle minoranze.

 

Per capire perché il diritto di voto delle minoranze è un tema così cruciale negli Stati Uniti, occorre fare una pausa e dare un’occhiata a come funzionano le cose laggiù. In primo luogo occorre dire che non esiste una legge unica che decida il modo in cui votare ma ogni Stato si regola per conto proprio. In secondo luogo occorre dire che, negli Stati Uniti, non funziona come da noi: nella stragrande maggioranza dei casi non serve un documento per votare. Basta registrarsi e presentarsi al seggio; in genere non è richiesto nessun documento di identità. Questo succede perché, in molti, anche cittadini perfettamente americani, specie se poveri non hanno documenti.

 

In America non esiste un equivalente della nostra carta di identità. E la patente non ce la hanno tutti. Moltissimi poi, non hanno un indirizzo fisso. In pratica, dunque, se sei povero, o poco istruito, o se vivi in una qualche condizione di disagio, negli Stati Uniti potresti non avere nessun documento. Per questo, per votare non è richiesto un documento, ma solo la registrazione al voto. Da alcuni anni, però, specie negli Stati a guida repubblicana, sono state introdotte nuove regole che pretendono che ci si presenti ai seggi con un documento con foto. Questo, anche se per i nostri standard può sembrare una cosa normale, negli Usa pone un grandissimo problema di accesso al voto delle minoranze e delle persone più povere. Non solo. Ma alcuni Stati conservatori, tra cui la Georgia di Stacey Abrams, hanno imposto nuove norme che, in teoria e pure in pratica, limitano il diritto di voto.

Per esempio è stato tagliato il tempo entro cui registrarsi al voto (procedura piuttosto complessa); oppure sono state tagliate le “drop-box”, le buche per inviare i voti per corrispondenza (in Georgia, nell’area di Atlanta, per esempio, sono passate da 94 a 23, tutte in quartieri a maggioranza bianca); oppure ancora sugli orari per il voto che, se sono limitati a quelli lavorativi, escludono tutti quelli che non possono chiedere permessi. In Georgia, infine, è stata approvata una legge che vieta di dare da bere o da mangiare a chi è in fila per votare.

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Contro tutto questo, da anni, si batte (e con un certo successo) l’avvocato Stacey Abrams. Questo suo incaponirsi sull’accessibilità del voto per tutti gli americani (proprio tutti) è la sua forza. La chiave di volta che la rende una scheggia impazzita, eppure preziosissima, nel quadro della politica americana e che, soprattutto, la rende l’araba fenice del partito democratico. I dem, infatti, non si sono mai ripresi dalla frattura, profonda (e soprattutto vera) delle primarie del 2016, quelle di Hillary Clinton contro Bernie Sanders e da allora sono spaccati in due, tra una fronda centrista e una progressista. In realtà queste definizioni non sono del tutto corrette (Hillary Clinton era più a sinistra di Barack Obama, e Joe Biden, a sua volta, è più a sinistra di Hillary Clinton) ma la divisione, soprattutto nell’elettorato, è reale e sentita. Sino a qui (o meglio: nel 2020) solo il timore della leadership scriteriata di Donald Trump è riuscita a fare da collante e a tenere insieme il partito, nonostante i malumori e i veti incrociati.

 

Il partito democratico americano però sa che, sul lungo termine, il solo sventolare il nome di Trump come un drappo rosso davanti all’elettorato è una strategia perdente. E sa anche che, diviso in due così com’è ora, rischia di essere debole, inefficace, fragile. Per questo è in cerca di una figura capace di unire e di guadagnarsi la fiducia di entrambe le sue anime. E questa figura potrebbe essere Stacey Abrams. Il suo fervore nella difesa delle minoranze (neri, ma non solo) e del loro diritto di voto, la rende molto gradita alla corrente progressista; allo stesso tempo, il suo lavoro come capo della minoranza del Congresso locale della Georgia, quando ha collaborato in modo concreto e efficace, con la maggioranza repubblicana, la rende potabile dai centristi. Inoltre la sua capacità di mobilitazione delle persone, di raccolta dei voti, e di dialogo con i repubblicani centristi non trumpiani è stato, probabilmente, uno degli assi nella manica dei democratici nelle elezioni del 2020, quando la Georgia fu vinta da Joe Biden per appena 12 mila voti, raccolti uno per uno da Abrams e dal gruppo di attivisti di Fair Fight, l’organizzazione no profit da lei fondata per tutelare il diritto di voto.

 

Il problema, però, è che, se Abrams vuole davvero essere l’araba fenice dei dem, come ogni araba fenice che si rispetti, deve risorgere dalle sue ceneri. Che non sono da poco, perché il suo ruolino di marcia alle elezioni alle quali è stata candidata in prima persona non è esattamente ricco di successi. O meglio: lo è stato fino a quando si è trattato di correre ad elezioni primarie dei democratici, o di essere eletta al congresso della Georgia. Ma poi, quando si è trattato di fare sul serio, come per le elezioni a governatore della Georgia nel 2018, ha perso. In realtà, la sua sconfitta è stata considerata una specie di vittoria. Sia perché, anche se ha perso contro il candidato trumpiano Brian Kemp, il margine è stato ridottissimo, specie per uno Stato superconservatore come la Georgia: meno di 50 mila voti. Sia perché esistono molti dubbi sulla legittimità delle operazioni di voto in Georgia durante quell’elezione.

 

Attenzione però: quando Abrams dice che qualcosa non torna nel risultato di quel voto, non fa una cosa uguale e contraria a quella fatta da Donald Trump che, dal 2020, parla di «big lie» (grossa bugia) e dice di essere il vero vincitore delle elezioni presidenziali. No. Abrams e Fair Fight hanno raccolto prove di distorsioni del voto già prima dello spoglio. Prove che, contrariamente a quanto successo con le congetture di Trump, hanno portato all’avvio di un processo, iniziato poche settimane fa. In particolare quello che si contesta a Kemp, che in quel periodo vestiva il doppio ruolo di candidato e di segretario di Stato della Georgia, cioè supervisore della legittimità delle operazioni di voto (il suo successore è Brad Raffensperger, quello cui Trump telefonò dicendo di trovargli 10 mila voti, non importava dove e come). In quella doppia veste Kemp rimosse migliaia di nomi (il 70 per cento neri) dalle liste elettorali, con i cavilli più fantasiosi, da errori di trascrizione dell’indirizzo preciso, a discrepanze di grafia del nome proprio.

 

Ora, a processo in corso, Abrams si è ricandidata. Contro di lei ci sarà il vincitore delle primarie repubblicane tra Brian Kemp (trumpiano caduto in disgrazia con Trump) e David Perdue (trumpiano che, invece, ha avuto l’endorsement dell’ex presidente).

I sondaggi, va detto, danno Abrams perdente in entrambi i casi, con un margine più ampio se dovesse sfidare Kemp (35/64 per cento), con un margine più ristretto se dovesse sfidare Perdue (49/51 per cento). Ma la campagna elettorale è ancora lunga e Abrams confida che se ai georgiani dovesse essere data la possibilità di votare davvero, le cose potrebbero cambiare. Certo, il Washington Post ha commentato che «la sua permanenza realistica nelle liste dei nomi dei papabili per la Casa Bianca, passa per le elezioni a governatore della Georgia. Se dovesse perderle, ancora, la sua corsa per altre cariche più importanti sarebbe fuori discussione». Il che, probabilmente è vero.

 

Ma non è detto. Gli autori di Star Trek, del resto, sono pronti a scommettere che diventerà presidente del mondo. Che è di più del Governatore della Georgia.