Reportage

Odessa, il porto d’Europa dove si gioca la sopravvivenza di Kiev

di Federica Bianchi   23 maggio 2022

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Vitale per il Pil, essenziale per l’export di grano. Ma per Mosca la città è soprattutto l'indispensabile anello di congiunzione tra l'est e l'ovest dell'Ucraina meridionale. Conquistarla sarebbe un come tagliare i capelli a Sansone

Nelle prime settimane di guerra cinque famiglie sono scese al di sotto del manto stradale al centro di Odessa, e si sono infilate nel Black Art Bar, un locale specializzato in tatuaggi  e oppiacei, per trovare rifugio dalle bombe. «È allora che ho capito che il locale aveva bisogno di una seconda vita», dice il proprietario trentaduenne Roman Heval. Qualche settimana più tardi, quando le bombe si sono rarefatte e le famiglie sono rientrate a casa, aveva pronta la nuova insegna: "Shelter 2022", ovvero "Rifugio 2022", emblema del luogo attualmente più richiesto di Odessa, se non di tutta l'Ucraina. «È il mio modo per dire no ai russi, alla dominazione che ci vogliono imporre», dice lui: «Non sono un politico, non ho una voce pubblica e allora uso il mio locale».

All'interno, il menu non è cambiato. A esserlo sono i nomi dei piatti, dalle «patatine formaggio e libertà» al piatto di carne con patate in onore di Sasha, l'imperterrito sindaco di Mikolaiv, la città poco distante da Odessa che da settimane i russi stanno cercando di conquistare a colpi incessanti di artiglieria nel tentativo di farne una nuova Mariupol. Qui anche i tatuaggi hanno assunto una valenza diversa: sono diventati i simboli della resistenza, indossati con orgoglio nazionale.

Come Shelter, così Odessa, città di mare e di commercio, dai mille volti e dai tanti colori, resiste all'aggressione. Era già accaduto nel 2014, quando gli abitanti filorussi provarono a conquistare la piazza solo per essere respinti, con tragiche perdite, dalla maggioranza della popolazione. «Parliamo, o meglio, parlavamo quasi tutti russo qui ma questo non ha mai voluto dire che volessimo fare parte della Russia», spiega in italiano padre Roman nella cattedrale cattolica della città: «Il russo era solo un comodo strumento».

Questa volta alla violenza Odessa risponde anche con il celebre sarcasmo, determinata a non perdere la sua indipendenza e la sua aria insieme maledetta e impertinente. «Sapete qual è l'unica arma di precisione russa?», circola nei caffè del centro la battuta ogni volta che un missile colpisce un albergo o un'abitazione: «La televisione!». E giù tutti a ridere. A dispetto delle sirene che con il loro urlo lugubre fendono ogni giorno l'aria e tolgono il respiro. Un altro bombardamento è in arrivo. La roulette russa chi colpirà?

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Questa celebre città portuale affacciata sul Mar Nero nasce per mano italiana nel 1794, su richiesta dell'imperatrice russa Caterina la Grande, dopo la sconfitta dell'impero ottomano. Il napoletano Giuseppe de Ribas, che la costruì sulle fondamenta di un vecchio fortino, le diede il nome in onore dell'eroe letterario greco ma Caterina lo volle volgere al femminile: Odessa. Per un secolo i nomi delle vie furono bilingue, in russo e italiano, così come i passaporti. Italiani furono anche gli architetti e gli artigiani che costruirono i due simboli della città, il teatro dell'Opera e la grande scalinata, accesso principale al porto, resa celebre nel film muto del 1925 "La corazzata Potemkin".

Qui, si dice, Eduardo di Capua scrisse "O sole mio", la celebre canzone sul tramonto che lui osservò dal porto di Odessa e non dal golfo di Napoli. Poi, con il passare degli anni, gli italiani si mescolarono ai russi, ai turchi, agli slavi e agli ebrei, in un crogiolo di identità stemperato negli anni dell’Unione sovietica ma mai estinto, che rende Odessa «la perla del Mar Nero».

Oggi per Mosca questa città è però soprattutto l'indispensabile anello di congiunzione tra l'est e l'ovest dell'Ucraina meridionale. Conquistarla sarebbe un po' come tagliare i capelli a Sansone. Permetterebbe di circondare il Paese con un ininterrotto cordone russo, a partire a nord-est dalla Bielorussia, oggi colonia di Mosca, per scendere a est nel Donbass, la regione parzialmente occupata nel 2014 e arrivare a sud al corridoio costiero che da Mariupol arriva a Kherson e lambisce Mikolaiv.

Manca quasi solo la città di Odessa per connettere questo corridoio alla Transnistria, la striscia della Moldavia sui confini occidentali ucraini occupata dai russi. A quel punto l'intera Ucraina sarebbe letteralmente presa per il collo. Con conseguenze devastanti.

Se Odessa fosse conquistata, i formidabili porti ucraini, fermi già dal secondo giorno di guerra, sarebbero definitivamente persi, privando  Kiev della componente principale del suo prodotto interno lordo: da qui passano le esportazioni di cereali su cui conta il Nord Africa e un parte del Medio Oriente, da qui arriva la maggior parte delle riserve di moneta estera. Sarebbe la morte economica del Paese, non tanto in tempo di guerra quanto negli anni a venire.

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Una prospettiva impensabile per la nazione e tragica per Odessa: «Il porto è parte integrante della città: se muore lui, muore lei», taglia corto Dmytro Kazavchynskyy, presidente dell'Odessa Business club. Dal suo ufficio sul bordo del mare in uno dei nuovi palazzi costruiti con il recente boom edilizio racconta delle difficoltà di continuare a sostenere l'economia del Paese in tempo di guerra, come ha chiesto a più riprese  il presidente Zelensky, preoccupato delle dimensioni di un tracollo economico da cui la ripresa rischia di diventare impresa impossibile: «I grandi business ucraini stanno diversificando produzione e logistica. Per i medi e piccoli la situazione è più critica perché abbiamo enormi difficoltà logistiche e le società internazionali, che sono preoccupate per la guerra, non ci fanno partecipare alle gare d'appalto». Un mezzo sorriso: «È appena successo anche alla mia società in Colombia con la vostra Enel».

Anche se la guerra finisse domani ci vorrebbero tra i tre e i sei mesi per sminare spiagge e mare. Ma la preoccupazione urgente è quella dell'esportazione di cereali e grani da parte del primo esportatore mondiale di olio di semi, il secondo di grani e il terzo di cereali. «Siamo sull'orlo della più grande crisi mondiale di cibo dai tempi della Seconda guerra mondiale», spiega al telefono dalla Polonia Andrey Stavnitser, un oligarca di Kiev che oltre ad un impero informatico gestisce uno dei principali terminali del porto di Odessa: «Nei nostri silos ci sono almeno 30 milioni di tonnellate, circa 14 miliardi di euro, del raccolto dell'anno scorso, che è stato abbondante. Se non saranno liberati entro luglio non ci sarà posto per mettere il nuovo raccolto che i contadini hanno eroicamente seminato sotto le bombe nonostante non avessero venduto quello precedente». Per non essere gettati, i cereali dovranno uscire in fretta dal Paese.

La via più semplice sarebbe costringere Mosca a permettere il transito delle navi commerciali sul mar Nero. Il tempo stringe. Le alternative logistiche sono insufficienti e sono tutte incentrate sulle ferrovie. Via treno i cereali potrebbero arrivare in Europa attraverso la Bielorussia, i Paesi baltici, la Polonia e la Romania. Tre porti polacchi e uno rumeno rappresentano la soluzione temporanea migliore per le esportazioni ma i problemi sono tanti. Le ferrovie ucraine, per quanto in grande rispolvero, non sono preparate a trasportare in Occidente simili quantità di merci, e non lo sono nemmeno le ferrovie europee.

Per non parlare degli standard di binari diversi che richiedono ingenti investimenti di adattamento e complesse operazioni di carico e scarico e della burocrazia che inevitabilmente rallenta ogni passaggio.

«Se via mare l'Ucraina riusciva a muovere fino ad 80 milioni di tonnellate annue, via terra sarà difficile quest'anno superare i 15 milioni», dice Stavnitser amaramente.

Ma nessuno qui si dà per vinto. La priorità di tutti è vincere, respingendo i russi. I protagonisti del business locale, grandi e piccoli, dedicano oggi la maggior parte del loro tempo a rifornire l'esercito di cibo, medicinali e materiale di protezione militare. «All'inizio inviavo settemila pasti al giorno per le nostre truppe», dice Stavnitser, diventato l’uomo di riferimento per la logistica della difesa territoriale di Odessa: «Oggi che la macchina statale ha preso a funzionare, non più di duemila. Ma c'è bisogno di tanto cibo e medicinali e le agenzie internazionali che dovrebbero aiutarci sono lente e disorganizzate», denuncia: «Completamente non all'altezza».

Alla loro mancanza, confermata da più fonti, sopperisce la mobilitazione totale dei cittadini. «Se qualcuno mi avesse detto nel 2010 che la Russia avrebbe invaso l'Ucraina gli avrei sputato in un occhio», dice Dimitri Miliutinil creatore di Moluar, una profumeria di lusso per oligarchi russi, ucraini e sauditi: «Odessa ha sempre avuto rapporti strettissimi con i russi. Rapporti che ormai sono recisi per sempre». Nel suo negozio poco distante dal teatro, le boccette di profumo intarsiate a mano hanno lasciato spazio a giubbotti antiproiettili e a cinture porta-kalashnikov. Due ragazzi, non avranno più di 19 anni, le misurano con attenzione, passamontagna infilato in testa, poi tirano fuori la carta di credito.

«All'inizio della guerra ho cominciato a fermarmi a tutti i posti di blocco domandando quello di cui avevano bisogno e per lo più erano giubbotti antiproiettili», racconta Miliutinil: «Me ne sono fatto dare uno da un militare e nel giro di 5 ore ho trovato chi l'ha messo in produzione». Ora lo vende a 40 euro,  il prezzo di costo, a soldati che non sempre arrivano al fronte ben equipaggiati e che preferiscono comprarsi da soli il necessario. Pur di difendere la città.

«Ci vorranno secoli perché gli ucraini possano perdonare Mosca», sottolinea Roman Shvartsman, 85 anni, vice presidente dell'Associazione ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento e ai ghetti nazisti, immerso tra gli scatoloni di aiuti umanitari che sta distribuendo ai 190 sopravvissuti all’olocausto che abitano ad Odessa, dove un terzo della popolazione era ebrea prima del nazismo: «Non credo ci sia tanta differenza tra Hitler e Putin, entrambi ugualmente determinati ad allargare i confini e a commettere genocidio».