Proprio ora che sta per partorire, Irina Ostroverhova non ha più un tetto sulla testa. «Si chiamerà Andriy», sospira riferendosi al bambino che nascerà tra poco. Ha già due figli e prima della guerra faceva due lavori, in una clinica veterinaria e in ospedale. «Adesso sono mamma a tempo pieno». Invece di fuggire ha scelto di rimanere a Pokotylivka, una città nell’oblast di Kharkiv, la regione liberata dai russi. Anche se l’artiglieria è tornata a colpire dopo alcune settimane di calma, Irina non si è persa d’animo. E ha deciso di ricostruire la sua casa, con le sue mani. E non è l’unica.
Molti degli abitanti hanno iniziato a darsi da fare, impazienti di tornare ad abitare le loro mura e consapevoli dei tempi lunghi necessari alla ricostruzione dell’Ucraina.
C’è Vyacheslav, che in vita sua mai avrebbe pensato di reinventarsi costruttore: «Sarà lunga, però lavoriamo giorno e notte». E Alexander Ivanovich Bezruk, «nato qui e qui disposto a morire, se necessario. Sono troppo vecchio per scappare». Il 28 aprile, l'edificio vicino a quello dove vivevano è stato colpito da un missile, sono morte tre persone. L’esplosione ha danneggiato anche il palazzo di Irina, Vyacheslav e Alexander. Ma non li ha convinti a cercare riparo altrove. Si sono messi a ricostruire il palazzo e pian piano hanno ripreso a vivere, dopo il terrore. «Abbiamo trascorso i primi cinque giorni nel seminterrato. Non pensavamo che il conflitto potesse durare tanto, credevamo fosse una provocazione. Nessuno sapeva cosa fare. Speravamo e basta», ricorda Irina. Le fa eco Svitlana Omelchenko, anche lei di Pokotylivka. «Sono rimasta per stare accanto ai miei genitori, decisi a non andar via per non abbandonare la loro casa e gli animali».
La scelta di mettersi a lavoro arriva dopo che il Comune comunica che finanziare la ricostruzione è praticamente impossibile. «Non avevamo idea di dove andare. Abbiamo fatto una riunione, perché tra vicini ci sentiamo una famiglia, e insieme ci siamo decisi a restare. Alcuni erano molto anziani, non se la sentivano di scappare. Preferivano rimboccarsi le maniche», spiega Svitlana.
La situazione è difficile ovunque, soprattutto nei villaggi più lontani dai grandi centri. E non migliorerà nel prossimo futuro. Solo alcuni giorni fa al Forum economico di Davos il presidente ucraino Volodymyr Zelensky parlava della quantità enorme di tempo e risorse necessari a ricostruire il Paese, chiedendo il sostegno internazionale. «Il Comune alla fine ci ha aiutato con il 10 per cento del budget, ma non era sufficiente e ci siamo messi a cercare altre donazioni. Siamo stati fortunati ad aver incontrato i nostri angeli, i volontari di Flaming Beacon», commenta Svitlana.
Il nome particolare di questa organizzazione affonda le radici nei romanzi di J.R.R Tolkien, di cui il fondatore è appassionato. E rimanda ai fuochi accesi da Gondor per invocare aiuto durante la battaglia di Minas Tirith. Slaven Vujić, a capo di Flaming Beacon, nella prima fase del conflitto si è occupato di prelevare i rifugiati dalle zone di confine, portandoli in altri paesi. «Però con la diminuzione dei flussi abbiamo deciso di fare qualcosa per gli sfollati interni. Li evacuiamo dalle zone di guerra e diamo loro beni di prima necessità. Qui a Pokotylivka, invece, abbiamo voluto sostenerli per ricostruire le case».
Con lui c’è anche Iryna Vlasenko, di Dnipro, diventata volontaria dopo la fuga. «So bene come ci si sente a essere dall’altra parte», dice. Ha lasciato la sua città il 16 aprile. «Volevo mettere al sicuro mio figlio. In Polonia, dove ero arrivata, ho dormito in macchina con lui e il mio cane, Runa, per otto giorni. Ero a Zator, perché lì avevano trovato riparo anche mia madre e le mie sorelle». Dopo essere stata aiutata da Flaming Beacon, ha deciso di restituire agli altri un po’ di quel bene ricevuto. «Volevo fare qualcosa per i miei connazionali. In Polonia ho incontrato un ragazzo di Kharkiv, mi ha detto che l'edificio dei suoi genitori a Pokotylivka era stato colpito da un missile. L’ho riferito ai volontari dell’Organizzazione e loro hanno deciso di finanziare la ristrutturazione. Quindi, eccoci qua»
Nonostante il supporto, per gli abitanti di Pokotylivka non è facile. «Siamo sempre in allerta. In attesa di qualcosa. Certo, sempre più persone stanno tornando a Kharkiv, ma non perché ora sia più sicura. La verità è che ci stiamo semplicemente abituando alla guerra», racconta Irina. Non si capacita di come tutto sia cambiato, da un giorno all’altro. Costringendo lei e tutti a rivedere le loro priorità: «Ogni giorno speriamo semplicemente che tutti quelli che conosciamo sopravvivano». Sospira. Forse, la nuova casa che pian piano prende forma è una piccola scintilla di speranza.