Populista anticasta, mattatore tv, ultraliberista. Vola nei sondaggi per le presidenziali e potrebbe vincere anche al primo turno contro i partiti tradizionali. Per questo preoccupa anche i peronisti

Una fredda sera dell’inverno australe può avere il sapore della fine di un’epoca. In tanti, in Argentina, devono aver avuto quella sensazione il 13 agosto, quando sono apparsi i risultati delle primarie per le presidenziali che sono obbligatorie e simultanee per tutti i partiti, una sorta di pre-elezioni. A quarant’anni dal ritorno della democrazia, per la prima volta gli argentini non si sono divisi solo tra peronisti e antiperonisti, come erano soliti fare, ma tre su dieci sono corsi a sostenere un terzo candidato, l’eccentrico Javier Milei. Ultraliberista, già mattatore televisivo, ammiratore di Donald Trump e Jair Bolsonaro, agita una terapia choc e un obiettivo: cacciare la casta. Milei punta a strappare la Casa Rosada al primo turno, il 22 ottobre: gli basta il 45% dei voti o il 40% se la distanza con il secondo è di almeno dieci punti. Forse non sarà così scontato, ma è lo spettro che agita l’intera classe politica.

 

A essere sotto choc sono soprattutto i peronisti. Alle primarie il loro candidato, Sergio Massa, politico di lungo corso e attuale ministro dell’Economia, ha raccolto meno voti non solo di Milei ma anche della sua avversaria di centrodestra, Patricia Bullrich. È davvero il tramonto della balena bianca argentina? «Qualunque cosa succeda, il peronismo si reinventerà. Lo fa sempre. Ma se perderà contro la forza d’urto di Javier Milei il travaglio interno sarà pesantissimo», riflette Maria Esperanza Casullo, politologa, esperta di populismi, docente all’Università di Río Negro.

 

Il vero incubo sono le montagne russe su cui corre l’Argentina: deve saldare un debito con il Fondo Monetario di oltre 40 miliardi di dollari, la Banca Centrale non ha più valuta pregiata, l’inflazione è al 114%, mentre 39 argentini su 100 vivono in condizioni di povertà, vale a dire oltre 18 milioni di persone, di cui quattro in assoluta indigenza. Tutti ricordano quel che successe nel 2001, le strade a ferro e a fuoco, cinque presidenti in undici giorni, di cui uno fuggito in elicottero e un grido: «Que se vayan todos».

 

Era il precipizio dopo un decennio euforico: tra il 1989 e il 1999 Carlos Menem, peronista e liberista, aveva privatizzato tutto e proclamato la parità del peso col dollaro. Dall’illusione alla catastrofe il passo è stato breve. La via d’uscita è stato un peronismo di sinistra: nel 2003 iniziava la saga dei Kirchner, prima Nestor e poi la moglie Cristina. Era nato così il kirchnerismo, un impasto di politiche statali, welfare di sussidi, nuovi diritti sociali e civili, il tutto reso possibile dal boom delle materie prime. Alle prime sventagliate di crisi e sotto le inchieste per corruzione, è arrivato lo smacco del 2015: il centrodestra antiperonista vince ma rimane a galla quattro anni, il tempo di indebitarsi con il più grande prestito mai concesso dal Fmi, impossibile da restituire.

 

Nel 2019, di nuovo il peronismo: Cristina si è defilata per fare la vice di un presidente scelto peraltro da lei, ma Alberto Fernández non ha mai avuto grandi ambizioni né carisma. «Qui c’è il primo paradosso – continua Casullo – il peronismo ha sempre proceduto per leadership seriali, ma in questo caso il presidente ha gestito solo il governo mentre Cristina continuava a essere la leader sempre più in contrasto con lui». In questi quattro anni il peronismo ha fatto da governo e da opposizione, tra faide e veti, mentre il Paese precipitava. Ora, a gridare che se ne vadano tutti è una nuova destra, estrema e senza freni.

 

I più spaventati sono i collettivi di donne e Lgbt che si stanno mobilitando ovunque. Fidel Azarian, trent’anni, ricercatore di scienze sociali al Conicet (il nostro Cnr), è un attivista che frequenta le assemblee transfemministe della sua città, Cordoba: «Oggi ci troviamo a discutere con i nostri vicini di casa o i nostri colleghi che ci rinfacciano quei diritti come privilegi o ci chiamano sfaccendati solo perché facciamo i ricercatori. Alla fine mi trovo a dover difendere sia i miei diritti sia il mio lavoro».

 

«Nessuno si immaginava una cosa simile o almeno di queste dimensioni – riflette Martín Granovsky, editorialista di Pagina/12, il quotidiano più vicino al kirchnerismo – eppure, proprio nei quartieri più poveri, cioè la base su cui si era ricostruito il peronismo in questi vent’anni, tutti i segnali c’erano». Uno dei paradossi è che Javier Milei, il Trump della Pampa, riprende e radicalizza le politiche di Menem, che pure era peronista e si sta circondando di consulenti e funzionari di quella stagione: «Lo fa per tranquillizzare l’establishment e i circoli di potere, ma è vero che la maggior parte dei dirigenti di destra sono ex peronisti pentiti che via via si sono allontanati».

 

Nella girandola di paradossi, Sergio Massa invece nasce fuori dal peronismo, poi ci è entrato e si è scontrato con Cristina Kirchner fino a promettere di metterla in galera. Ora è proprio lei ad averlo scelto, abile e cinico, come l’asso in una manica bucata. «Un politico senza progressismo», l’ha definito Martín Rodríguez, saggista e redattore della rivista Panamá.

 

In realtà, riprende il filo Maria Esperanza Casullo, «il peronismo non è solo una macchina di potere per il potere, ha sempre avuto una forte base sociale, solo che ora anche quella si ritrova in crisi: i sindacati sono deboli, le organizzazioni sociali disorientate». La società civile argentina, si sa, è una trama fittissima di gruppi, associazioni, collettivi. Se il Paese non è esploso come nel 2001, il merito è soprattutto loro, ci dicono tutti, perché hanno fatto finora da cuscinetto. Ma ogni volta che viene saccheggiato un negozio nella periferia della grande Buenos Aires la domanda che ricorre è sempre la stessa: quanto può durare la pazienza?