È stata Elena Milashina ad aver rivelato al mondo l'orrore delle persecuzioni Lgbt in Cecenia. Rinchiusi, torturati e uccisi nella prigione segreta di Grozny. Era il 2017, la giornalista di Novaya Gazeta in sintonia con l’associazione Lgbt dissidente, Russian Lgbt Network, ha raccolto e denunciato al mondo un inferno di unghie strappate, percosse, scosse sui genitali, sedie elettriche. E poi è stata costretta alla fuga «in luoghi sicuri», sotto il peso di minacce di morte e sotto l'incalzante omertà delle autorità russe. L'inchiesta di Novaya era stata considerata un «insulto» alla «secolare cultura cecena» e «alla dignità dei suoi uomini». Nel 2017 erano stati 24 i leader religiosi che di fronte a oltre 15mila fedeli aveva adottato una «risoluzione» che chiedeva «vendetta» contro i suoi autori, «dovunque essi si trovino».
Oggi Milashina è tornata in quelle terre, ancora una volta per raccontare nella Repubblica del Caucaso dal tribunale Akhmat l'udienza conclusiva del processo a carico di Zarema Musaeva, accusata in ritorsione contro l'attività politica dei figli, entrambi oppositori e rifugiati all'estero, Abubaka e Ibrahim.
Una storia che spiega bene lo stato di corruzione e dittatura del paese di Kadyrov: Musaeva, rapita a Nizhni Novgorod nel gennaio del 2022 e portata in seguito in Cecenia, è stata condannata a cinque anni e mezzo di carcere, la pena chiesta dall'accusa.
Oggi un gruppo di uomini armati e con il volto coperto hanno aggredito brutalmente Milashina e l'avvocato Aleksandr Nemov coinvolto nel caso Musaeva. Appena entrata in terra cecena, l’auto dove si trovava di Milashina e Nemov è stata bloccata da un gruppo di uomini armati sulla strada dall'aeroporto alla città. Presi a calci, anche in faccia. I loro strumenti di lavoro, fra cui i telefonini, sono stati portati via e distrutti. Gli assalitori si erano fatti dare i codici di accesso. Nemov ha denunciato che durante il tragitto, la loro auto è stata bloccata da tre auto. Gli aggressori, secondo l'avvocato, li hanno anche minacciati puntando loro una pistola alla tempia. «Le hanno spezzato le dita perché volevano che desse loro la password del telefonino», racconta su Telegram chi in questo momento la sta assistendo. La testa rasata e ricoperta di vernice verde. Le è stata diagnosticata una lesione cranica. «Sta molto male».
Come raccontano a L’Espresso gli attivisti ceceni: «Nei paesi della CSI, l'atto di versare vernice verde è un’offesa. Una vernice molto difficile da lavare e, a causa delle sue proprietà, rovina i capelli, può danneggiare le mucose del corpo». L’antisettico era già stato utilizzato nel 2017 per due volte in attacchi contro l'oppositore del Cremlino, Alexei Navalny; ha effetti collaterali sia sulla pelle che agli occhi e può arrivare a causare cecità. La giornalista della testata indipendente Novaya Gazeta Yelena ha raccontato dal letto dell'ospedale in cui è ricoverata che l'attacco sembrava un «classico rapimento». «Hanno buttato fuori dall'auto l'autista, sono saliti, ci hanno piegato la testa, mi hanno legato le mani, mi hanno costretto a inginocchiarmi e mi hanno puntato una pistola alla testa», aggiungendo che gli aggressori erano visibilmente nervosi e avevano difficoltà a legarle le mani.
L’avvocato Nemov, accoltellato alle gambe, si trova attualmente su una sedia a rotelle. Milashina e Nemov volevano essere interrogati in ospedale da un agente di polizia, ma non sono riusciti a farlo. Entrambi sono stati presi a calci, pugni, con tubi di polipropilene, gli è stato ricordato il loro lavoro, i tribunali, i processi, di cui ha scritto Elena Milashina. «Questo non è chiaramente un attacco malavitoso, è un attacco per le loro attività», ha denunciato Sergey Babinets, capo del Team Against Torture per cui ha lavorato Abubakar Yangulbaev prima di essere costretto a lasciare il Paese. Milashina già nel 2020 era stata vittima di un'aggressione a Grozny con il suo avvocato.
Il processo che volevano seguire si è concluso nel peggiore dei modi. Zarema Musaeva, che ha 53 anni e ha gravi problemi di salute, è stata giudicata colpevole di aggressione a pubblico ufficiale e frode. La sentenza pronunciata oggi «equivale a una condanna a morte», ha commentato Abubakar Yabgulbaev. Il marito di Musaeva, Saidi Yangulbaev, è un giudice in pensione.
«Il regime ha voluto dimostrare che è ancora forte, che controlla tutti e ogni pensiero, e far sapere che punirà tutti i dissidenti e i loro familiari», e che questo vale anche dopo l'ammutinamento di Evgheny Prigozhin, afferma in una intervista all'Adnkronos Abubakar Yangulbaev, avvocato, dissidente, figlio di Zarema Musaeva. Questo atto dimostrativo «non vale solo per la Cecenia ma per tutta la Russia. Azioni brutali come queste possono accadere solo con il via libera di Mosca», aggiunge Yangulbaev che da tempo oramai ha lasciato la Russia per trasferirsi in un Paese europeo.
«Il caso Musaeva è particolare, nel senso che il marito, mio padre, Saidi Yangulbaev, è un giudice federale. Dimostra una volta di più che la Russia usa la Cecenia come laboratorio per esperimenti. Una volta provato che funziona, diffondono al resto del Paese il nuovo passo per inasprire la dittatura. Quindi quello che è accaduto oggi a Grozny presto lo vedremo in Russia. La Cecenia è il futuro della Russia», spiega Yangulbaev che ha da poco fondato il gruppo Kost (che in ceceno significa messaggio) in cui raggruppare esponenti di diverse idee politiche, confessioni, etnie, con obiettivo principale comune quello di sconfiggere la dittatura cecena. «Non ho paura e continuerò a combattere contro Kadyrov», sottolinea il dissidente, anticipando i procedimenti avviati formalmente da Kost per gli abusi commessi durante le due guerre in Cecenia, anche grazie alle prove che continuano a raccogliere esponenti del movimento rimasti in Cecenia. «La mia è una mamma orso. È forte e ha il morale alto, anche dopo la condanna. Tutte le volte che ero sconsolato per quello che ci accadeva, per le persecuzioni contro uno di noi, mi diceva, non ti devi preoccupare. Abbiamo superato due guerre. Kadyrov non è niente. Fai il possibile e l'impossibile lo farà Dio».