Polveriera africana

Nell'indifferenza del mondo, il Sudan resta un inferno

di Antonella Napoli   5 marzo 2024

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Il conflitto scoppiato nel 2023 ha causato migliaia di morti e spinto 11 milioni di persone a fuggire. Chi resta è in balia di violenze e carenza di cibo. Nel silenzio della comunità internazionale

Suliman Ahmed Hamid ha profondi occhi scuri. Uno sguardo che non lascia indifferenti, nonostante la luce che li faceva brillare sia offuscata da stenti e dolore. Italiano d’adozione, 69 anni, di cui 15 trascorsi a Roma, Suliman è fuggito dal Sudan in guerra. Emblema del dramma di un popolo dimenticato, la sua storia inizia con il nuovo conflitto scoppiato il 15 aprile del 2023, che ha costretto 11 milioni di persone a scappare dalle loro case e ha causato un numero incalcolabile di morti. Almeno 20 mila, la maggior parte provocati dai bombardamenti delle Forze armate sudanesi, ma anche dalla ripresa della pulizia etnica nella regione del Darfur perpetrata dalle Forze di supporto rapido (Rsf) che si contrappongono all’esercito regolare.

Crimini di guerra per i quali il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha annunciato all’Onu un’inchiesta, in particolare sulle atrocità commesse nell’ultima fase del conflitto in Darfur che prosegue a fasi alterne da oltre 20 anni.

Gran parte dei quartieri della capitale Khartoum, dove Suliman viveva con la moglie e tre figli, sono stati rasi al suolo dai costanti raid dell’aviazione sudanese e sono stati saccheggiati dalle milizie paramilitari. Città bellissima e moderna, mai toccata nella sua storia recente dal dramma della guerra, la capitale del Sudan da oltre dieci mesi vede compiersi una devastante autodistruzione. Mentre 18 milioni di persone nel Paese, di cui 3,8 milioni di bambini sotto i cinque anni, sono ridotte alla fame. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale.

Lo sa bene Suliman che, pur avendo ottenuto documenti italiani e il ricongiungimento dei familiari, continua a essere ignorato dalle nostre istituzioni, nonostante la sua richiesta di aiuto. Nel 2015 il protagonista di questa vicenda aveva deciso di tornare in patria. Credeva giusto, avendo raggiunto una stabilità economica e sociale, di dover fare qualcosa di concreto per la «sua» martoriata gente. 

Persone in fuga dalla guerra in Sudan aspettano di salire su un camion che le porterà in un centro di transito dopo aver attraversato il confine al valico di Joda

 

Ma le speranze dell’avvio di un percorso democratico «promesso» dall’allora rieletto presidente, l’ex generale golpista Omar Hassan al-Bashir, si infransero in pochi mesi. Suliman, esponente dell’opposizione e attivista, era comunque rimasto creando un’organizzazione umanitaria non governativa per aiutare le popolazioni sfollate in Darfur. Ma nel 2023, dopo il rovesciamento del regime di Bashir determinato dalle rivolte del 2019, che sono costate la vita a migliaia di manifestanti, è scoppiato il conflitto più feroce di sempre. Questa volta Suliman non ha potuto far altro che fuggire con la sua famiglia, o ciò che ne restava.

Hanno provato a resistere, seppure tra mille difficoltà, il più a lungo possibile. Ma la chiusura dei mercati, la mancanza di cibo e di materie prime, gli scontri che si avvicinavano alle abitazioni si sono rivelati condizioni insopportabili che hanno messo a dura prova la loro profonda resilienza. Quando i combattimenti sono arrivati a poche centinaia di metri dal suo quartiere, Suliman ha capito che rischiavano di rimanere imbottigliati tra le parti in conflitto, in una città ridotta in macerie.

La capitale ormai si era trasformata in un campo di battaglia senza distinzione tra obiettivi civili e militari. In molti, soprattutto i più giovani, tra cui suo figlio minore Ahmed, erano partiti per Port Sudan, da dove provare a raggiungere l’Egitto via Port Said e sottrarsi così agli arruolamenti forzati. Suliman aveva pensato di tornare in Darfur, la sua regione di origine. Ma anche lì la situazione non era affatto rassicurante. Da Nyala, la capitale del Sud, era arrivata la notizia dell’uccisione di due parenti e di un amico di famiglia sulla soglia di casa.

«Suliman e i suoi familiari avevano trovato riparo presso uno zio. A un certo punto, le comunicazioni si sono interrotte, facendo pensare al peggio», afferma una fonte sul campo, un operatore umanitario impegnato in varie aree dell’Africa sub-sahariana che per motivi di sicurezza chiede l’anonimato. «In  Darfur, a fare vittime sono le milizie Rsf. Ogni giorno si susseguono uccisioni di massa, stupri e rappresaglie contro la popolazione in fuga. A essere presa di mira è la gente di pelle nera, in particolare quella di etnia Masalit. Migliaia di civili vengono sequestrati, massacrati in strada, le donne vengono violentate mentre cercano di raggiungere a piedi il confine con il Ciad (dove sono già presenti oltre 500 mila rifugiati sudanesi, ndr) per sfuggire alle violenze e ai combattimenti», conclude.

Suliman e i suoi familiari non possono fare altro che riprendere il viaggio, dal Sudan all’Etiopia, trovando infine riparo in un centro di accoglienza per profughi allestito dalle Nazioni Unite nel distretto etiope di Gondar. La situazione all’interno dell’accampamento è al limite della sopravvivenza. In migliaia sono costretti a una convivenza forzata, con tutte le conseguenze del caso. Suliman, che riesce a comunicare attraverso un numero sudanese con sua figlia Amane, che vive in Germania, racconta che nel campo è in corso un’epidemia di colera. La tensione è alle stelle, miliziani armati girano all’interno del campo, aggredendo e derubando i profughi con la minaccia delle armi.

Suliman Ahmed Hamid, italiano d’adozione, è tornato in Sudan dal 2015.

 

«Alcuni giorni fa un uomo di origine eritrea è stato picchiato ferocemente vicino alla nostra tenda – racconta Suliman – degli uomini armati gli hanno chiesto il telefono e, davanti al suo rifiuto, lo hanno colpito con violenza. Non è intervenuto nessuno, nemmeno una guardia del campo che ha assistito alla scena», continua sconsolato l’attivista. Oltre alla sicurezza, ciò che manca a Gondar è il cibo. Suliman, tra l’altro, ha problemi di salute. Per questo ha affrontato più volte il viaggio verso il vicino ospedale gestito dalle Nazioni Unite per poter ricevere così le cure necessarie. Poche settimane fa, lungo la strada che conduce alla struttura sanitaria, l’ambulanza è stata fermata da uomini armati delle milizie Fano. Lui e gli altri che erano a bordo sono stati portati nella boscaglia.

«C’erano due ragazzi, giovanissimi, anch’essi arrivati dal Sudan, che non avevano un soldo e nemmeno il cellulare. Le milizie allora hanno detto che potevamo essere uccisi. Ma il caso ha voluto che con noi ci fosse anche una donna eritrea in possesso di una discreta somma di denaro, frutto di anni di contributi Onu ricevuti come rifugiata politica. Dovevano servirle per acquistare dei biglietti aerei per Addis Abeba, per sé e per la sua famiglia. Invece, quel denaro ha fatto la differenza tra la morte e la salvezza per tutti noi», ha spiegato Suliman alla figlia, una volta rientrato al campo, dove gli è stato fornito un nuovo telefono. Raccontare la storia di Suliman significa parlare di milioni di rifugiati e delle condizioni estreme in cui vivono. Gente in fuga dal baratro della guerra, esseri umani sradicati dalle loro case, in balìa degli eventi e del tempo.

«Per giorni interi non arriva cibo. Veniamo affamati», denuncia Suliman che accusa coloro che gestiscono la distribuzione alimentare nel campo di avere messo in piedi una vera e propria «mafia» degli aiuti, a spese di coloro che ne hanno bisogno. Un inferno da cui – in quanto italiano d’adozione – chiede di essere salvato.