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22 dicembre, 2025La strategia per la Sicurezza nazionale di Trump punta a rafforzare il controllo degli Usa sull’emisfero occidentale. E la vittoria dell’estrema destra in Cile è un passaggio chiave
Un altro tassello da aggiungere al puzzle di Trump. Un puzzle che si colora sempre più di blu. Conservatori, spinti da una destra radicale. La netta vittoria di José Antonio Kast in Cile, dal prossimo marzo nuovo presidente, dalle aperte simpatie naziste, rafforza la dottrina Monroe che trasforma il vecchio e bistrattato “cortile di casa” nel florido giardino che si affaccia sull’ingresso del Sudamerica. Oggi è al centro della strategia per la Sicurezza nazionale, il documento di 33 pagine che il presidente degli Stati Uniti ha reso noto il 4 dicembre scorso. Il cuore del dossier indica la strada del futuro: un “riallineamento” della presenza militare statunitense nell’emisfero occidentale per contrastare i tre nemici dei Maga repubblicani: l’immigrazione, il traffico di droga e quella che lo stesso Trump descrive come l’ascesa di potenze straniere nella regione.
Il riferimento, ovviamente, è a Pechino. Il gigante asiatico ha approfittato dei nuovi rapporti con il Brasile, tramite i Brics, con il Perù realizzando il megaporto di Chancay e con il Venezuela sul piano energetico, per allargare la sua sfera di influenza nel Continente. Ha fornito aiuti, assistenza, finanziamenti in cambio di nuovi accordi commerciali fino all’acquisizione di intere porzioni di territorio.
Il documento annuncia una maggiore presenza della Guardia Costiera e della Marina Usa nella regione, «per proteggere», si spiega, «il confine e sconfiggere i Cartelli, incluso, quando necessario, l’uso della forza letale». È inquadrato come un “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe, dal nome del presidente che nel 1823 invitò le potenze europee dell’epoca a rispettare la sfera di influenza statunitense in Occidente. Una dichiarazione chiara e netta. «Gli Stati Uniti devono avere una posizione preminente nell’emisfero occidentale», si legge nel testo, «come condizione per la nostra sicurezza e prosperità, una condizione che ci consenta di affermarci con sicurezza ovunque e ogni volta che sia necessario nella regione».
Dopo tre tentativi andati a vuoto, JAK, come viene chiamato il neopresidente Kast, domenica 15 dicembre ha conquistato al ballottaggio il Palacio de la Moneda di Santiago del Cile. Il suo successo ha fatto riesumare l’anima di Augusto Pinochet, il feroce dittatore che nel 1973 mise fine con un violento golpe all’esperienza di “Unidad Popular”, il primo governo di centro sinistra nella storia del Paese. Il leader dell’estrema destra ha raccolto un ampio consenso. Ha vinto con il 58,16 per cento dei voti, battendo la sua avversaria, Jeannette Jara, prima comunista candidata alla presidenza, che si è fermata al 41,84. Anche qui hanno pesato le tre grandi emergenze di questo secolo, le stesse che appaiono nel documento di Trump: la presenza in Cile di 300 mila immigrati, l’aumento del traffico di droga, la diffusione della criminalità. È una costante in tutto l’emisfero.
Se si guarda alla carta geografica del Centro e Sud America si nota il progressivo cambiamento politico ed economico. L’Honduras, guidato finora da una coalizione di sinistra, alle ultime consultazioni ha scelto l’estrema destra. Con una sorpresa. Dopo aver apertamente sostenuto il candidato del Partito Nazionale, Donald Trump ha premiato il voto concedendo la grazia all’ex presidente Juan Orlando Hernández, condannato a 43 anni di carcere dalla giustizia Usa per traffico di cocaina. Apparteneva allo stesso partito del vincitore. Incassava tangenti milionarie dal Chapo Guzmán, fondatore del Cartello di Sinaloa, per far transitare la montagna di droga verso gli Stati Uniti.
Il Salvador, con la conferma del presidente Najib Bukele, resta un alleato di ferro. Accoglie nel suo enorme carcere speciale, definito un campo di concentramento da tutte le organizzazioni a difesa dei diritti umanitari, le decine di migliaia di deportati dagli Usa.
L’alleanza su cui può contare Trump si estende all’Ecuador dove regna ancora il leader della destra Daniel Noboa, alla Bolivia che, dopo vent’anni di dominio della sinistra del Mas, ha visto votare in massa la destra di Rodrigo Paz Pereira, fino al Paraguay di Santagio Pena, leader dei conservatori del Partito Colorado. Il quadro si completa con l’Argentina di Javier Milei, l’uomo della motosega, forse il più fedele sostenitore dell’inquilino della Casa Bianca. Adesso è stata la volta del Cile e presto, nell’aprile del 2026, toccherà al Perù. Anche qui i sondaggi attribuiscono la vittoria alla destra. Ala sinistra restano la Colombia, già incalzata dalla destra conservatrice, e il piccolo Uruguay che ha resistito all’assalto delle forze reazionarie.
Sarà facile per l’amministrazione Trump gestire questa rete di alleanze e realizzare i punti salienti della sua dottrina sulla sicurezza nazionale. Nel documento che la descrive si parla di «reclutamento ed espansione« con i partner nella regione. Rafforzando i legami esistenti e attraendone di nuovi; «aumentando» la loro «propria attrattiva come partner privilegiato in termini economici e di sicurezza». In cambio, promette The Donald, i governi, i partiti politici e i movimenti «ampiamente allineati» con i suoi «principi e la sua strategia» saranno premiati. Senza «dimenticare i governi con ideologie diverse con cui condividiamo comunque interessi e che sono disposti a collaborare con noi».
L’esempio del Brasile è calzante. Dopo un primo periodo di frizione e scontri, tra Lula e Trump è scattata un’intesa sul piano commerciale e di interscambio. Restano distanti le posizioni ideologiche. Ma queste non influenzano un rapporto che si basa soprattutto sul business. Jair Bolsonaro, grande alleato del Tycoon, è stato sacrificato (con una condanna a 24 anni per tentato golpe) anche per sancire un’alleanza strategica che non poteva essere incrinata da una richiesta di amnistia.
La nuova dottrina Monroe 2.0 non fa mistero dell’uso della forza «dove sarà necessario». Da combinare con la «diplomazia commerciale», utile a identificare le risorse strategiche, come le terre rare o i minerali critici, la cui acquisizione è diventata una delle massime priorità di Washington. Stessa cosa con il petrolio che resta la fonte d’approvvigionamento primaria vista la bocciatura del green deal.
Mercoledì 10 dicembre, con un vero assalto degno di un film d’azione, la Marina e la Guardia Costiera Usa hanno bloccato e sequestrato una petroliera che trasportava del greggio proveniente dal Venezuela. La Skipper batteva bandiera della Guyana ma non era registrata in quel Paese. Sulla base di una serie di immagini satellitari il New York Times è riuscito a dimostrare che la nave aveva cercato di nascondere la propria posizione trasmettendo dati falsi. I funzionari che hanno parlato con il quotidiano assicurano che faceva la spola con l’Iran, aggirando l’embargo a cui il Paese è sottoposto assieme al Venezuela.
L’assalto alla Skipper ha segnato un salto di qualità nell’assedio a cui da due mesi è sottoposto il regime di Nicolás Maduro. Ne seguiranno altri, assicurano fonti della Difesa Usa. Il bombardamento di 22 lance di presunti trafficanti con almeno 82 morti appare sempre più una cinica scusa. La lotta alla droga non c’entra nulla. L’obiettivo è costringere alla resa il delfino di Chávez. Da sostituire con María Corina Machado, premiata con il Nobel per la pace 2025 e apparsa improvvisamente a Oslo dopo un anno di latitanza. Conquistare il Venezuela e il suo prezioso petrolio: l’ultimo tassello per completare il nuovo ordine del Continente latinoamericano.
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