Seraj Ouda ha 20 anni. Dalla Striscia, racconta a L'Espresso come la vita dei palestinesi sia cambiata a partire dal 7 ottobre 2023: le torture dei militari israeliani, il rumore perenne dei bombardamenti, la fame che scava nei corpi. "Mi sento in una gabbia, alla ricerca di cibo, di un rifugio sicuro che non c’è"

"Il nord della Striscia ha l’odore di sangue e cenere" - Diario da Gaza

Sto cercando di respirare, ma non so più come fare. Vivo come in apnea, senza sapere cosa fare, senza sapere dove andare. Mi sento in una gabbia, alla ricerca di cibo, di un rifugio sicuro che non c’è, bloccato tra l’artiglieria pesante e le bombe israeliane. Non c’è via di fuga, casa mia è circondata dal fuoco israeliano. Il nord di Gaza ha l’odore di sangue e cenere

 

Mi sembra di essere su una barca in mezzo al mare, vorrei vedere la riva, la fuga dalle bombe, dalla fame e dallo sfollamento continuo, ma l’orizzonte non c’è. Ieri una bomba è stata lanciata a pochi metri da casa mia, ho sentito un boato, ho visto i vetri delle finestre tremare e il mio cuore si è fermato. Non so quanto ancora ci resta da vivere. Le poche volte che riesco ad addormentarmi spero solo di svegliarmi vivo il giorno dopo. E trovare viva anche mia sorella

 

Sono molto stanco. Non mangio niente da giorni. La fame mi si insinua dentro le ossa, mi prosciuga la forza e la speranza. Spesso non riesco ad alzarmi e se lo faccio mi gira la testa, mi si abbassa la vista. Sento il mio corpo che si assottiglia, che si svuota. Sono passate tre ore da quando ho provato ad alzarmi. Non ci riesco. Non riesco a muovermi. Mi sento stanco, esausto. Affamato. Magro. Inutile. Non riesco a fare più niente. Fatico anche  a scrivere queste righe, faccio fatica a pensare. A volte cammino e sento le ginocchia cedere, non per paura – quella ormai è diventata una compagna abituale – ma perché non ho più energie. 

 

La fame a Gaza non è solo privazione di cibo, è privazione di dignità. Al sud centinaia di persone si sono accalcate per un pezzo di pane, ci hanno ridotti come animali, perché umani per loro non siamo stati mai. Mentre scrivo tremo ancora al pensiero del dramma della dottoressa Alaa al-Najjar. Sabato scorso un raid israeliano ha ucciso nove dei suoi dieci figli mentre era in servizio al Nasser Medical Complex di Khan Younis, nel reparto pediatrico. Stava salvando la vita ad altri bambini, quando i suoi morivano tra le fiamme di due bombardamenti mirati sulla sua abitazione. 

 

Quel giorno aveva salutato i figli per andare a lavorare e durante il servizio tra i sudari ha ricevuto quelli che nascondevano i corpi di nove dei suoi dieci bambini. Erano corpi neri, irriconoscibili l’uno dall’altro, completamente carbonizzati. Il più grande di loro aveva 12 anni. La sua casa adesso è distrutta, la sua famiglia spazzata via in un attimo. Non riesco a smettere di pensare a lei, al suo dolore, alla sua perdita. Mentre scrivo mi manca il respiro come se tutta questa violenza mi avesse già ucciso. Vorrei trovare un modo di salvarmi, di salvare me e la mia sorellina Farah, di uscire da questa trappola, ma non ho manco più le forze per chiedere aiuto, ho bisogno che facciano evacuare almeno mia sorella che necessita immediate cure mediche, ma a nessuno importa. 

 

Nessuno può tirarci fuori da questa carneficina. Non ho altri fratelli, sono l'unico della famiglia insieme a lei. Siamo diventati incapaci di sopportare, abbiamo perso ogni speranza. Sopra di me sento i quadricotteri che volano e sparano, e il rumore assordante dei bombardamenti che non si ferma mai. Farah non riesce a dormire ma io non so più rincuorarla. Mi sento stanco. Non so per quanto tempo ancora riuscirò a scrivere.

La prima uscita del diario da Gaza

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