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23 settembre, 2025La sentenza sull'ex presidente e sui militari golpisti conferma l’indipendenza della magistratura, indifferente alle pressioni politiche interne e americane
Dalla gloria alla polvere. Dal successo stellare alla detenzione in carcere. Jair Messia Bolsonaro, ex presidente del Brasile, leader osannato della destra estrema, celebra l’apice della sua vita umana e politica nel peggiore dei modi. Subisce una condanna a 27 anni e tre mesi per cinque gravi reati: tentata abolizione violenta dello Stato, colpo di Stato, appartenenza a un’organizzazione criminale, danneggiamento di proprietà pubblica e danneggiamento di beni protetti. Dovrà scontare la pena dietro le sbarre. Non si sa ancora quando e in quale penitenziario. È probabile prima della fine di questo 2025. Ci dovrà rimanere almeno sei anni.
Sperava in un’assoluzione, in un verdetto che annullasse la lunga istruttoria sul tentato golpe culminato l’8 gennaio del 2023 con l’assalto di 50 mila militanti di destra alla spianata dei Tre Poteri a Brasilia. Confidava sulla sospensione del processo, con il caso trasmesso alla magistratura ordinaria. Più malleabile, meno indipendente. Era un’ipotesi. Ma possibile. Luiz Fux, uno dei cinque giudici che componevano la prima commissione del Tribunale superiore federale, il massimo organo giuridico brasiliano a cui era stato affidato lo scottante caso, si era detto favorevole. Era stato l’unico consigliere che, in un discorso durato 22 ore, aveva smantellato punto per punto l’intero impianto accusatorio. Ma l’illusione, durata lo spazio di un mattino, si è presto trasformata in un incubo.
Una doccia gelata per i familiari dell’ex presidente radunati in attesa del verdetto nella casa di Brasilia dove Jair era agli arresti domiciliari dal 4 agosto scorso. Per i dirigenti politici della destra estrema che lo avevano sostenuto con minacce e pressioni e che adesso sono pronti a sostituirlo con un nuovo leader. Per i milioni di fan che si erano spesi tra iniziative, manifestazioni, persino preghiere e raduni evangelici invocando l’aiuto di Dio, l’unico in grado di salvare il loro idolo. Anche il figlio Eduardo si è dovuto rassegnare. Da sette mesi vive a Washington per perorare la causa del padre. Ha convinto Trump che in Brasile c’è «una dittatura giudiziaria»; lo ha spinto a dichiarazioni infuocate, di pieno sostegno al suo “amico” Bolsonaro. Ha chiesto e ottenuto l’applicazione della legge Magnitsky, quella che perseguita gli autori delle violazioni dei diritti umani e i corrotti. L’ha fatta estendere all’estero per colpire chi stava giudicando l’ex presidente. Ha fatto revocare loro il visto d’ingresso negli Usa. Ha punito il Brasile con dazi del 50 per cento, i più alti al mondo.
Un record di ritorsioni. Non sono servite a niente. Il governo e il presidente Lula hanno respinto «le gravi ingerenze negli affari interni di un Paese sovrano», la magistratura ha riaffermato la sua indipendenza dal potere politico. Così è stato. Un esempio virtuoso. Il Brasile ha tenuto la testa alta, non si è fatto intimorire e soggiogare. Altri quattro magistrati del Supremo, Alexandre de Moraes, Carmen Lucía Rocha, Flávio Dino e Cristiano Zanin, non hanno avuto dubbi: hanno votato per la condanna. Quattro voti a favore, uno contrario.
L’ex capitano ribelle cacciato dell’esercito, l’ex presidente che per quattro anni, dal 2019 al 2022, ha governato un Brasile devastato dagli incendi sottovalutati e negati, flagellato dal Covid con 700 mila morti che si potevano evitare, ha trascinato nel suo piano golpista altri sette fedelissimi. Quattro sono militari, figure di primo piano, con incarichi da ministri. Due sono civili, il settimo guidava i Servizi segreti. Nomi noti in Brasile. Per il loro passato, per il sostegno alla dittatura che governò il Paese, per l’insofferenza alle regole istituzionali. Walter Braga Netto, generale dell’esercito, ha avuto una condanna a 26 anni. Era ministro della Camera Civile, che corrisponde al nostro primo ministro, e candidato alla vicepresidenza alle ultime elezioni, perse per un soffio nella sfida con Lula. C’è Gustavo Heleno, anche lui generale dell’esercito che ricopriva la carica di ministro della Sicurezza Nazionale. Gli hanno inflitto 26 anni. Quindi l’ammiraglio Almir Garnier, comandante della Marina. Una pena a 24 anni. È stato l’unico dei tre responsabili delle Forze Armate ad appoggiare il progetto di golpe.
Quando il presidente li convocò nel suo ufficio, i capi dell’Esercito e dell’Aeronautica ebbero un sussulto di orgoglio costituzionale e negarono il loro consenso. Garnier restò isolato. Questo, forse, ha convinto l’ex presidente a riparare in Florida dal suo amico Donald Trump. Ma ha solo sospeso, non cancellato il piano. Dagli Usa ha atteso che il resto dei suoi sostenitori facessero il lavoro sporco, con l’irruzione e la devastazione dei palazzi della Presidenza, del Congresso, della Corte Suprema. La miccia che avrebbe acceso la rivolta e il golpe, con l’intervento dei militari a rimettere ordine. Lo avevano fatto a Washington, l’anno prima, il 7 gennaio 2022, assaltando Capitol Hill. Potevano farlo anche in Brasile. È andata in maniera diversa. I magistrati hanno insistito. Uno, in particolare, Alexandre de Moraes, 56 anni, l’unico ad essersi opposto al tentativo di golpe la sera dell’8 gennaio.
Mentre i 50 mila sostenitori di Bolsonaro lasciavano tra le rovine lo slargo dei Tre Poteri e si rifugiavano nella tendopoli allestita a poche centinaia di metri, protetti dal Comando militare territoriale, il giudice aveva fatto schierare la polizia militare e chiesto ai rivoltosi di arrendersi. I soldati di guardia avevano tirato fuori due blindati, i cannoni puntati sugli agenti. La mediazione del vescovo di Brasilia ha evitato il peggio. È stato sempre questo magistrato controverso, di idee conservatrici ma paladino della legalità, considerato una bestia nera dalla famiglia Bolsonaro e dall’ambiente dell’estrema destra, ad avviare l’inchiesta che 18 mesi dopo ha portato al processo.
È stato ancora lui a disporre l’arresto di Anderson Torres, ministro della Giustizia dimissionario, perché trovato in possesso della copia di un decreto legislativo che avrebbe dato copertura giuridica allo stato di emergenza da proclamare secondo il piano del golpe. Anderson si è visto infliggere 24 anni di carcere per la sua partecipazione attiva al progetto. Così Paulo Sérgio Nogueira, ministro della Difesa, che ha avuto 19 anni e Alexandre Ramagen a cui è stata inflitta una pena di 16 anni come direttore dell’Abin, l’agenzia di spionaggio interno. Ottavo imputato era Mauro Cid, tenente colonnello dell’esercito, segretario particolare di Bolsonaro. I giudici gli hanno riconosciuto la fondamentale collaborazione, premiata con una cospicua riduzione della pena: 2 anni.
Arrestato nei primi giorni ha accettato di partecipare alle indagini. La sua confessione ha consentito agli investigatori di recuperare le prove cartacee e audio che hanno confermato l’esistenza del progetto di golpe e il ruolo da protagonista di Jair Bolsonaro.
Dalla cella in cui sarà rinchiuso, il capitano diventato presidente ricorderà le passeggiate provocatorie assieme ai militari il sabato mattina a Copacabana; le adunate oceaniche che lo hanno portato verso la vittoria. I quattro anni alla guida del Brasile. La negazione dei Covid, il falso certificato antivirus per entrare negli Usa ai tempi della pandemia, l’isolamento internazionale per le sue uscite a favore della passata dittatura militare, la delegittimazione del sistema elettorale, la campagna contro l’allarme mondiale dei roghi che stavano distruggendo l’Amazzonia. Jair Bolsonaro è stato il pioniere di quell’ondata di populismo e autoritarismo che ha prodotto i Milei, i Bukele e il secondo Trump. Ha emulato il suo mentore oggi alla Casa Bianca. Aveva l’appoggio di oltre la metà dei brasiliani. Gli stessi che oggi negano la possibilità di un’amnistia. Ha varcato la linea rossa tracciata dalla democrazia. Una sfida che nessuno gli ha perdonato.
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