Pane al pane
«Non c'è un complotto delle agenzie di rating: è il nostro debito pubblico a essere gigantesco»
Non serve gridare alla congiura internazionale, ma basterebbe guardare a quello che non hanno fatto i governi della seconda Repubblica. Di tutti i colori
Standard and Poor’s ha mantenuto il rating, cioè la valutazione della qualità, dei titoli di Stato italiani a livello BBB. Non è un voto molto buono, anche se c’è chi temeva un declassamento. In attesa di vedere cosa faranno le altre agenzie di rating, è utile riassumere la storia del nostro debito pubblico dopo la seconda guerra mondiale per capire se i giudizi non splendidi che riceviamo dalle agenzie di rating siano dati per partito preso o per motivi oggettivi.
Il debito pubblico italiano venne spazzato via dall’inflazione che seguì la seconda guerra mondiale. Il debito si misura rispetto al Pil e il Pil è gonfiato dall’aumento dei prezzi, ossia dall’inflazione. Negli anni ’50 e ’60 il rapporto tra debito e Pil restò su valori inferiori o vicini al 30%. Poi inizia la crescita che ci porterà nel 1994 a un livello del 122%, non molto più basso di quello attuale (a fine 2023 dovremmo essere al 140%). Che cosa accadde in quel periodo?
La storia è semplice: aumentiamo la spesa sociale (soprattutto sanità e pensioni) come tutti gli altri Paesi avanzati, ma non aumentiamo le tasse corrispondentemente. Elevati deficit pubblici “primari” (cioè anche al netto della spesa per interessi) furono usati per favorire la pace sociale in un periodo in cui in Italia le tensioni politiche diventavano elevatissime (ricordiamoci delle Brigate Rosse). Questi deficit alimentarono di anno in anno la crescita del debito. Inizialmente l’impatto del rapporto tra debito e Pil venne attenuato dall’inflazione, alimentata dalla moneta stampata da Banca d’Italia per finanziare (in parte) il deficit. Poi, quando la Banca stringe i cordoni della borsa per combattere l’inflazione, aumenta anche la spesa per interessi e il debito accelera. Nel 1994 il debito raggiunge un picco del 122% del Pil, come indicato.
Dal 1992 al 2007 il debito scende: è l’unico periodo di calo tendenziale dal Dopoguerra e riflette la decisione di entrare nell’euro, rispettando, almeno in termini di deficit, i criteri di adesione. Ma dopo un calo più rapido nella seconda metà degli anni ’90, la discesa si attenua dal 2000 in poi, risultando anche più lenta di quella registrata per altri Paesi dell’area dell’euro, soprattutto di quelli che, come il Belgio, avevano inizialmente un debito più alto del nostro. Insomma, il debito è stato creato dalla prima repubblica, ma la seconda repubblica non riesce a ridurlo abbastanza: nel 2007 abbiamo ancora un debito del 104% del Pil.
Poi arrivano le crisi economiche del 2008-09 e del 2011-12. A causa di queste crisi il Pil scende e il debito viene alimentato da deficit piuttosto alti, nonostante le politiche di austerità. Ci troviamo così con un rapporto tra debito e Pil del 135% nel 2014 e, nonostante la ripresa della crescita, restiamo su questi livelli fino al 2019. Poi ci colpisce la crisi Covid: di nuovo, il Pil che crolla e il deficit su livelli record alimentano la crescita del debito. Con il rimbalzo del Pil nel 2021-2022, il debito si ridimensiona, ma, nei piani del corrente governo, resterebbe da qui al 2026 stabile intorno al 140%.
Capite quale è il problema, dunque? Negli ultimi 25 anni, quando ci colpisce una crisi economica il debito sale, mentre non scende o non scende molto quando riusciamo a crescere. Non credo si possa parlare di congiura delle agenzie di rating quando i dati parlano da soli.