La proposta presidenzialista del governo personalizza la politica, lasciando le decisioni chiave a una sola figura. Che, sentendosi “unta dal signore”, scivolerà nell'autoritarismo. Mentre il potere passerà sempre più dal Parlamento al governo

Uno dei temi che terrà occupato nel prossimo anno chi tra noi italiani ancora segue le vicende politiche è la riforma costituzionale presentata dal governo Meloni. Non la riassumo perché ormai le sue caratteristiche sono note. Vado subito al punto: non mi piace per due motivi.

 

Il primo è che rende istituzionale quella personalizzazione della politica che ha comunque già caratterizzato la Seconda Repubblica. Per personalizzazione intendo la messa al centro della proposta politica della figura di un leader “carismatico” che, grazie alle proprie qualità superiori, dovrebbe fungere da guida per la nazione. Esempi? Si parte dal «meno male che Silvio c’è», per passare al Salvini Capitano, al Renzi degli 80 euro (quest’ultimo un po’ meno carismatico vista l’esistenza all’interno del Pd di una consistente opposizione), per finire col «Io sono Giorgia» dell’attuale presidente del Consiglio. Non mi piace questa personalizzazione perché per me la politica è, prima di tutto, discussione di idee e non di persone.

 

E quando si personalizza la politica, quando si pone sopra un piedistallo il “líder máximo”, come dicevano a Cuba, si finisce per far prendere decisioni chiave a una sola persona che, quasi inevitabilmente sentendosi “unta dal signore” (in questo caso attraverso l’elezione diretta dal popolo), finisce per montarsi la testa. Poi magari arriverebbe un 25 luglio per ridimensionare l’elevato, ma sarebbe troppo tardi. Il rischio è acutizzato dall’assenza, nella riforma, di una proibizione di rielezione per più di due mandati. E non è certo una soluzione quella di aver previsto la possibilità di una “staffetta” tra il presidente eletto e un suo successore che faccia parte della stessa maggioranza e con lo stesso programma. Al meglio, si rimpiazza un líder máximo con un altro, Matteo al posto di Giorgia, così è contento, un po’, anche il secondo.

 

L’altro motivo del mio scetticismo è che, con l’elezione diretta del premier, la bilancia del potere si sposta ulteriormente a favore del governo rispetto al Parlamento. La democrazia, come è stata conosciuta da due secoli nei Paesi occidentali, è caratterizzata dall’equilibrio dei poteri teorizzato da Montesquieu. Nelle sue parole: «Quando nella stessa persona, o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca, o lo stesso senato, facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo».

 

Ora, di fatto, nel corso della Seconda Repubblica la bilancia del potere si è già spostata verso l’esecutivo, che sempre più svolge funzioni legislative attraverso l’abuso di decreti legge (Meloni ha stabilito nuovi record in proposito), di voti di fiducia (che minimizzano il dibattito parlamentare) e di leggi delega con principi generali vaghi che consentono al governo di legiferare anche su temi tipicamente di competenza parlamentare (come la fissazione del livello della tassazione; vedi recente delega sul Fisco). Con l’elezione diretta del premier e le cosiddette norme anti-ribaltone ci si muoverebbe sempre più in quella direzione, a meno di introdurre, al tempo stesso, nuove norme per rafforzare il potere legislativo del Parlamento, cosa che non è prevista dall’attuale riforma.