Opinioni
20 ottobre, 2025Il ministro sa bene che i voti si perdono non solo per colpa del tempo, ma anche del silenzio
C’è sempre, in ogni coppia politica, un momento in cui uno dei due comincia a guardarsi allo specchio più a lungo dell’altro. È il momento in cui l’amore – o meglio, la convenienza – si incrina. Giorgia Meloni e Matteo Salvini si conoscono da anni, ma non è detto che si capiscano ancora. Lei sale, lui scende. Lei si specchia nella luce di Palazzo Chigi, lui nella penombra di un ministero che sembra più un retrobottega che una vetrina. E in questa asimmetria, fatta di numeri e di nervi, si nasconde il seme della prossima tempesta. Perché il potere, si sa, è come il lievito: cresce solo se tutti gli ingredienti si mantengono in equilibrio. Ma quando un alleato si sgonfia troppo, rischia di diventare una zavorra. O peggio: una mina vagante. Fratelli d’Italia vola, la Lega precipita. In Toscana, un tempo territorio di conquista per il Carroccio, quattro elettori su cinque hanno cambiato cavallo. Nelle Marche la ritirata è stata quasi epica: dal 22 per cento al 7. In Liguria, dove la memoria di Toti ancora aleggia, la Lega ha perso metà dei voti. Solo la Calabria – ironia della sorte – regge un minimo l’urto, come un fortino disperso nel deserto.
Eppure, è proprio quando uno perde che diventa pericoloso. L’alleato indebolito non è un alleato domato: è un alleato affamato. Salvini, che conosce la politica come pochi, sa che i voti si perdono non solo per colpa del tempo, ma anche del silenzio. E quindi, da qui al 2027, farà tutto il possibile per far rumore. Rumore nei Consigli dei ministri, rumore nei talk show, rumore nelle piazze del Nord dove un tempo bastava un comizio per infiammare la folla. Vorrà mostrare che c’è ancora, che non è diventato il comprimario della premier, che la Lega non è solo un relitto di un’epoca padana ma una forza viva, capace di ruggire ancora.
La prova del Veneto sarà decisiva. Cinque anni fa, tra la lista di partito e quella di Zaia, la Lega superò il 60 per cento. Oggi rischia di non poter nemmeno usare il nome del governatore. E Zaia minaccia di «diventare un problema» (forse lo è già).
Intorno, intanto, Meloni osserva. In apparenza serena, come chi guarda le onde senza capire se il mare stia salendo o scendendo. Ma dietro la calma c’è la consapevolezza che ogni crepa nella Lega è una crepa nella coalizione. Non si governa un Paese con un alleato umiliato: prima o poi si ribellerà, anche solo per orgoglio. Salvini non accetterà di essere l’uomo che ha portato la Lega dal 34 per cento al 4. Si agiterà, punterà i piedi, riaccenderà le bandiere del Nord e del «prima gli italiani», cercherà di occupare spazio mediatico anche a costo di complicare la vita al governo. Lo farà in nome della sopravvivenza, non della lealtà. La premier si trova di fronte a un paradosso: più cresce, più rischia. Perché la forza sproporzionata del suo partito rispetto agli alleati trasforma la coalizione in una piramide instabile, dove il vertice regge tutto, ma resta solo. Lei sa che l’unità del centrodestra non è soltanto una formula elettorale: è la condizione di sopravvivenza del governo.
Se la Lega, per difendersi, sceglierà la strada dell’opposizione interna, la legislatura entrerà in una zona di turbolenza permanente. Ogni provvedimento diventerà un terreno di visibilità, ogni tensione un’occasione per marcare la distanza. E questa lotta di spazio e d’immagine consumerà una parte non piccola dell’energia politica di Palazzo Chigi.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Medici Zombie - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 17 ottobre, è disponibile in edicola e in app