Il tycoon mira a trasformare l'ordine commerciale globale a favore degli Usa. Che si sono resi conto di quanto la globalizzazione da loro voluta abbia fatto esplodere il debito e creato rivali geopolitici. Chi pagherà il conto finale è ancora da vedere. Bruxelles deve giocare bene le sue (non poche) carte

Su un punto l'Unione europea e i suoi stati membri sono marmorei: le leggi e i regolamenti democraticamente approvati dalle sue istituzioni non sono negoziabili. "Off the table", fuori da ogni trattativa, hanno detto sia esponenti parlamentari di destra che di sinistra. La democrazia europea non è ricattabile. Perché a leggere bene il documento che il president Donald Trump ha sbandierato di fronte alle telecamere ieri notte (ora italiana), intitolato "Le barriere al commercio internazionale”, in cui snocciola percentuali di dazi in arrivo su 57 Paesi del mondo oltre ai 27 dell'Unione europea, il problema non sono tanto i dazi (minimi) che noi imponiamo sui beni statunitensi quanto i regolamenti, le legislazioni e gli accordi speciali (nel caso del Sud globale) con cui regoliamo l'entrata dei beni e servizi americani.


 

"Non è ancora chiaro" come il presidente statunitense abbia tradotto tutto ciò in percentuali di dazi applicabili ai beni in uscita dai singoli Paesi (per l'Europa siamo al 20 per cento), ammette Jorgen Warborn, portavoce per il Commercio internazionale del gruppo dei Popolari europei. Ma è evidente che lo scopo di Trump sia da una parte quello di obbligare gli stati “ricchi” a modificare le proprie legislazioni per renderle più favorevoli agli Usa e, dall'altra, di impedire ai Paesi del Sud globale di diventare potenza economica grazie a un totale sbilanciamento dei rapporti commerciali di forza, come ha fatto la Cina negli ultimi trent'anni, imponendo tariffe enormi alle sue importazioni e ricevendo invece tariffe vicine allo zero sulle esportazioni. Che poi questo sia stato il volere di amministrazioni americane (erroneamente) convinte che così avrebbe «esportato la democrazia» in Cina è un'altra storia.


 

Nel caso dell'Unione europea la questione è complessa. Trump usa le tariffe sui beni sia come clave che come chiave, con gesti e parole perfettamente comprensibili al suo pubblico Maga, che non capirebbe mai la complessità e, soprattutto, le lungaggini di una trattativa su regolamenti e servizi transatlantici. Tale trattativa ad oggi non esiste. Ma potrebbe essere presto nelle carte. "Per trattare è inutile concertarsi solo sui dazi", dice Benedetto Santacroce, fiscalista romano specializzato in questioni commerciali: «Dobbiamo prima capire come Trump abbia trasformato le barriere non commerciali (regolamenti e norme sul commercio di beni e servizi) in percentuali di dazi applicabili, e poi fare un discorso complessivo sulle legislazioni commerciali da una parte e l'altra dell'Atlantico».


 

E difatti la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, non si è affrettata ad annunciare misure immediate quando stamattina alle 5, ora italiana, ha risposto da Samarcanda in Uzbekistan, all'annuncio della guerra commerciale lanciata da Washington. Ha prima chiarito che il 14 aprile, una settimana dopo l'entrata in vigore dei dazi di Trump (il 9 aprile) partiranno i dazi europei sull'acciaio e l'automotive già decisi nei giorni scorsi. Per la seconda tranche di contromisure dovremo invece aspettare fine mese e capire se, ad annuncio avvenuto, gli uomini di Trump saranno messi in grado di negoziare davvero con le controparti europee. "Dobbiamo trovare una risposta proporzionale che costi esattamente quanto ci costano i nuovi dazi), bilanciata (che non pesi eccessivamente su alcuni stati membri) e unitaria ( che sia sostenuta da tutti e 27)", ha sintetizzato Warborn.


 

Il sospetto è che in realtà Trump voglia dividere gli Stati europei, facendo leva sulle differenti normative interne che comportano un peso diverso nei diversi Paesi degli stessi dazi del 20 per cento. Per evitare le conseguenze disastrose che avrebbe sull'economia e sulla democrazia comune europea la disintegrazione di quello che è il più grande mercato del mondo, il nostro, con i suoi 450 milioni di consumatori, parlamentari e commissari (l'abile negoziatore slovacco Marcus Sefcovic) sono in partenza per Washington, in una trasferta pre pasquale. "In teoria il commercio sarebbe appannaggio del Congresso", ha spiegato alla stampa il tedesco Bernd Lange, presidente del Comitato sul commercio internazionale del parlamento europeo: "Ma Trump ha accentrato nelle sue mani le questioni dell'immigrazione e del commercio".


 

Fino ad oggi è stato impossibile trovare controparti americane disposte a negoziare davvero. Tanto più che Trump voleva arrivare allo show di ieri sera nel Giardino delle rose della Casa Bianca, con tanto di adoranti operai del settore automobilistico di Detroit, in crisi da decenni, e lavagnetta da maestro saccente con la lista delle punizioni da distribuire. Non solo. Se una vera negoziazione che porterà alla (necessaria) modifica delle ormai vetuste regole del commercio globale ci sarà davvero non potrà non coinvolgere oltre alle merci anche i servizi, diventati il fulcro dell'economia di questo nuovo millennio. E in questo campo l'Europa soffre – cortesia dei Big Tech – di un deficit di oltre 100 miliardi di euro con gli Usa, che quasi compensa il deficit che gli Usa hanno sullo scambio di beni (dove soffrono un deficit di circa intorno ai 140 miliardi di euro).


 

Dunque è davvero difficile che Bruxelles si muoverà su tutti i regolamenti digitali. Al contrario, i parlamentari spingono all'utilizzo dello strumento chiamato “Atto anti-coercizione”. Pensato per la Cina, e considerato il vero bazooka della Ue perché permette di difendersi (non attaccare) imponendo barriere importanti anche sui servizi contro le Big tech, il fianco sensibile degli Usa. Più probabile invece è che con l'annunciata “semplificazione” delle normative esistenti, che includerà anche la legislazione del Green Deal, entrata in vigore nella scorsa legislatura, potranno essere introdotte modifiche ai requisiti di compensazione della CO2 delle merci importate che vadano incontro agli Stati Uniti, nonostante siano a detrimento della de-carbonizzazione nostrana.


 

Siamo all'inizio di un lungo braccio di ferro che finirà probabilmente col cambiare regole e strutture del commercio globale. A partire dal WTO, l'organizzazione mondiale del commercio che è ormai ad un passo dalla fossa. Adesso che non solo la globalizzazione di beni e servizi anni Novanta è al capolinea ma, in quest'epoca dai rigurgiti nazionalisti, nessuno crede nemmeno più nella globalizzazione della democrazia, il futuro è tutto da riscrivere. E i più grandi e più forti avranno la penna in mano.


 


 


 

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

La Design Week milanese? Un palcoscenico per nuovi alchimisti - Lo speciale de L'Espresso è in edicola

Aziende e designer si impegnano a riformulare il Made in Italy con nuovi strumenti

Design di Luce, lo speciale de L'Espresso