C’è un confine sottile, e sempre più fragile, tra il governo di uno Stato e la sua volontà di piegare le istituzioni alla logica del potere. Con la decisione di revocare oltre 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni federali all’università di Harvard, l’amministrazione Trump ha varcato quel confine. Non si tratta soltanto di un regolamento di conti con l’università più prestigiosa del Paese. Si tratta di un atto politico che colpisce al cuore la libertà accademica, il pluralismo intellettuale e la stessa architettura democratica degli Stati Uniti.
Le tensioni tra Donald Trump e Harvard non sono nuove. L’università è da anni oggetto della retorica trumpiana, bersaglio privilegiato di un populismo anti-élite che considera ogni pensiero critico come un nemico da neutralizzare. Il nuovo attacco si inscrive in una strategia più ampia: delegittimare i presìdi culturali del Paese, quelli che non si piegano, che resistono, che non accettano di trasformarsi in cinghie di trasmissione dell’ideologia dominante. E Harvard, con le sue posizioni indipendenti e la sua vocazione cosmopolita, è il simbolo perfetto da abbattere.
A fare da detonatore è stata la stagione di proteste pro-Palestina che ha attraversato molti campus americani nel 2024. Harvard, in particolare, è finita sotto i riflettori per episodi che hanno visto emergere tensioni e accuse di antisemitismo, in un clima esasperato in cui la critica a Israele è stata spesso strumentalizzata per screditare le rivendicazioni studentesche. Le dimissioni della presidente Claudine Gay sono state il primo passo. Il secondo è stato l’insediamento di Trump, deciso a punire le università che considera «infestate» da ideologie liberal e progressiste.
La revisione dei finanziamenti annunciata dalla Casa Bianca non è un atto neutro di buona amministrazione. È un tentativo di commissariamento mascherato da riforma. Si chiede ad Harvard di eliminare i programmi su diversità, equità e inclusione, di adottare criteri «basati sul merito» – una formula che nella bocca dei nuovi inquisitori significa: escludere, selezionare, normalizzare. Dietro lo slogan della meritocrazia si cela la volontà di smantellare ogni tentativo di costruire un’università più giusta, rappresentativa, inclusiva.
Harvard ha deciso di reagire. Ha intentato causa contro l’amministrazione federale, difendendo la propria autonomia e la propria missione. Ma il messaggio che arriva da Washington è chiaro: chi non si conforma verrà colpito duramente, esemplarmente. Si vuole creare un precedente, un monito per tutte le altre università americane, quasi a dire che la stagione del dibattito libero è finita e che la critica è diventata reato. In questo disegno, l’università diventa campo di battaglia. Colpire Harvard significa gratificare il populismo MAGA, con il suo disprezzo per gli intellettuali. Significa attaccare gli studenti internazionali e rafforzare il nativismo che Trump ha sempre cavalcato. Significa, in ultima istanza, depotenziare il ruolo delle università come luoghi di formazione del pensiero critico, del dissenso, della cittadinanza globale.
L’America si sta giocando qualcosa di molto più profondo dei finanziamenti a un ateneo. Sta mettendo in discussione il patto costituzionale tra Stato e società civile, tra potere politico e libertà culturale. Oggi è Harvard, domani sarà chiunque osi dire no. È un altro passo, silenzioso ma micidiale, verso l’abisso di una svolta autocratica che non possiamo permetterci di ignorare.