Ci sono persone che hanno tutto il diritto di urlare la loro indignazione nel sapere libero chi ha ucciso i familiari e fatto scempio dei loro corpi. Vedove, madri, sorelle, figli delle vittime di mafia e quanti sono scampati per un soffio alla morte, portandone i segni, hanno titolo per dire le cose che dicono sulla scarcerazione di Giovanni Brusca, il boia di Capaci. Quella che per noi – pur partecipi, ma sostanzialmente estranei al dolore – è un’asettica applicazione di norme, per loro è carne viva: brucia, è sale su ferite che non si rimarginano. Piaghe eterne che meritano di avvicinarsi con pudore alla sofferenza. Meritano rispetto.
Non dimostra di averne chi ascrive sbrigativamente quelle dichiarazioni a reazioni emotive, arroccandosi dietro al feticcio di Giovanni Falcone, per difendere l’intangibilità di una legge del 1991. Fingendo di non vedere il tempo trascorso e le storture accumulate in 34 anni. Sul fronte opposto, chi le utilizza per liquidare la legislazione premiale sui collaboratori di giustizia, adombrando un’arrendevolezza dello Stato alla mafia e ai suoi contorcimenti, compie un’operazione vigliacca. Usa politicamente oggi il punto di vista dei parenti delle vittime. Mentre ha trascurato ieri e ignorerà domani la loro attesa di giustizia, le denunce su omissioni, depistaggi e mezze verità giudiziarie.
I collaboratori sono un elemento irrinunciabile per scardinare sodalizi omertosi. Permettono di conoscere dal di dentro cosa accade. Al pari delle intercettazioni, ancora più genuine, perché non viziate dall’interesse, dal tornaconto. Il punto non è, quindi, se i collaboratori siano utili, né tantomeno se siano autenticamente redenti, perché uno Stato laico non si occupa di ravvedimenti interiori. Il punto è semmai: che lotta alla mafia conduciamo? Come viene utilizzato uno dei pochi strumenti a disposizione? Insomma, cosa vogliamo davvero sapere, cosa chiediamo, di cosa ci occupiamo quando ci occupiamo di mafia?
Se la coralità degli sforzi per arginare lo strapotere di organizzazioni che controllano una fetta rilevante dell’economia sana è pressoché inesistente, la lotta alla mafia si è ridotta a una mera questione di contabilità processuale. Ora, il meccanismo che sta alla base dell’ingaggio di un collaboratore è chiaro: io compro delle informazioni e le pago con il soldo di alcuni benefici. È legittimo chiedersi fino a che punto può spingersi l’offerta, se la merce di scambio sia congrua. Più è alto il contributo, più si dovrebbe essere disposti a pagare. Ma se in questa procedura negoziale ci si assesta sul minimo, ci si accontenta, non si chiede di più – per paura, inadeguatezza, connivenza – chiaro che la sproporzione del prezzo risalti. Chi compra e cosa vuol comprare non è irrilevante. Quanta sete di verità si ha davvero in un Paese opaco come il nostro?
Ora, per tornare a Brusca, quel che ha detto è tanto sul piano militare, ma quel che ha taciuto sul versante strategico e sui collegamenti con altri pezzi del disegno stragista italiano, è altrettanto. Sul piatto della bilancia sono quei silenzi ad autorizzare il giudizio sulla sproporzione tra i suoi racconti e l’enormità del ritorno in libertà. Dire che la legge è stata applicata è vero, ma è anche mistificatorio, perché equivale a considerare la sua scarcerazione alla stregua di un sigillo tombale su quanto ci siamo presi da lui, pagandolo il massimo. Con buona pace delle domande ancora senza risposta. Messa così non è il prezzo della libertà a essere esagerato, ma quanto poco abbiamo avuto in cambio.