Ricorre il 33esimo anniversario dell'eccidio di Capaci in cui con il giudice morirono la magistrata Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. I riti delle commemorazioni come alibi per eludere le domande ancora aperte sul perché. Comodo ammantare tutto con la retorica dell'eroismo, omettemdo di scandagliare complicità e connivenze

Falcone: la memoria addomesticata sulla strage del 1992

Evocato quasi sempre a sproposito, circondato da un affetto postumo che in vita gli avrebbe risparmiato l’isolamento mortale, Giovanni Falcone è diventato esattamente quello che non avrebbe voluto: un simbolo, un santino da esibire alle processioni dei triti riti antimafia, una citazione dotta, estrapolata dal contesto, funzionale a legittimare qualsiasi imbroglio la politica sia capace di perpetrare contro la Giustizia.

Trentatré anni dopo Capaci, la strage che decretò la fine del giudice che prometteva di elevare il livello del contrasto alle mafie, con l’occhio lungo sulle sue protezioni, le capacità mimetiche, le occulte fortune, la memoria di quel che è stato è sempre più addomesticata. Piegata alle miserie del quotidiano, alle manovre dei governanti, agli infimi regolamenti di conti tardivi tra magistrati che hanno vissuto quella stagione. O ne sono stati incapaci eredi. Mai che diventi una lezione utile a leggere la storia turpe del Paese con gli occhi della consapevolezza. Perché a questo, in definitiva, dovrebbe servire ricordare. Magari interrogandosi sui complici, sui conniventi, sugli indifferenti. Sul grumo di irrisolto che teniamo lì da oltre tre decenni.

 

Divisivo e corrosivo, con l’incrollabile fede dei civil servant in uno Stato che pure lo osteggiava, Falcone è stato capace di navigare controcorrente, smentendo sempre i pronostici di sudditanza, al centro, a destra e a sinistra, che l’ampia schiera dei detrattori era pronta ad affibbiargli. Istruì un maxiprocesso che i soloni giudicavano un obbrobrio giuridico e che si rivelò invece la più formidabile breccia al mito dell’impunità di Cosa nostra. Volle un bunker per celebrarlo e dovette fare i conti con i devastatori della città che gridavano pure allo scempio edilizio. Difese la necessità dell’arma dei collaboratori di giustizia per bucare il muro d’omertà, mentre altri preferivano trastullarsi con le informative di sedicenti fonti anonime che dispensavano informazioni con il contagocce del loro tornaconto. Garantendo carriere e prebende, sia agli sbirri sia ai padreterni. Fece arrestare i cugini Nino e Ignazio Salvo, gli esattori, grandi elettori Dc, con un piede in politica e l’altro in Cosa nostra che avevano già schivato le manette con Rocco Chinnici, ucciso nel 1983. Attento ai progressi delle indagini, ma anche all’adeguatezza degli apparati che dovevano occuparsene, immaginò una superpolizia come la Dia e una Superprocura come la Dna. La sua biografia racconta che gli fu negato di guidare l’ufficio istruzione, di diventare Alto commissario antimafia, di essere eletto al Csm e da ultimo di arrivare a dirigere la sua stessa creatura: la direzione nazionale antimafia.

 

Ci è comodo pensare alla strage come a una vendetta, una punizione. Una torsione all’indietro che ci fa rivolgere lo sguardo al passato, a quel che il giudice aveva fatto. Sposiamo inconsapevolmente la stessa logica mafiosa che attribuisce la colpa della morte alla vittima, con uno sbrigativo «se l’è cercata».

Poco ci diciamo del valore preventivo di quell’eccidio che costò la vita ad altri quattro servitori dello Stato: la magistrata Francesca Morvillo, moglie di Falcone, e i tre agenti, il caposcorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Non vittime collaterali, ma lì, all’appuntamento con la morte, per onorare l’impegno di esserci quando altri si tiravano indietro. Siamo incapaci di vedere cosa quella strage e le successive hanno impedito. Cosa sarebbe stata la lotta alla mafia se tanto Falcone quanto Paolo Borsellino non solo fossero stati lasciati in vita, ma messi nelle condizioni di lavorare. Ancora e nonostante tutto.

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