La presidenza europea dell'Italia si chiude con pochi risultati, nessun fuoco d'artificio e tanti errori. Spesso nati dal protagonismo del premier. Che ora sul Quirinale si gioca tutto
Più che un semestre di presidenza italiana dell’Unione europea è stato un semestre bianco per la politica nazionale, in cui il Parlamento non poteva essere sciolto e il presidente della Repubblica non si poteva dimettere. E anche un semestre in bianco: «In Europa siamo riusciti a cambiare il vocabolario, ora aspettiamo le realizzazioni», ha ammesso il presidente di turno. Matteo Renzi.
Atteso con il solito carico di enfasi che grava sugli eventi internazionali con l’Italia protagonista (in arrivo il prossimo: l’Expo 2015), il semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione europea che sta terminando (il 13 gennaio ci sarà il rapporto finale di Renzi di fronte al Parlamento Ue) è destinato a non lasciare tracce di particolare rilevanza nel Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio. Tutto è pronto per voltare pagina. Il prossimo paese presidente di turno, la Lettonia, ha inaugurato il suo semestre a Riga con una pièce del compositore Eriks Esenvalds, “After the Storm”. “Dopo la tempesta”, ma non è un riferimento al predecessore italiano. Per Renzi, anzi, la bufera deve ancora venire.
Non se l’aspettava così l’uomo di Palazzo Chigi la fine del suo
semestre di presidenza Ue. L’inizio coincise con una cavalcata trionfale, con il suo Pd al 40,8 per cento e undici milioni di voti raccolti alle elezioni europee del 25 maggio. Con il discorso di apertura il 2 luglio 2014 di fronte al Parlamento Ue in cui il premier si paragonava a un eroe dell’Odissea: «La generazione nuova che abita oggi l’Europa ha il dovere di riscoprirsi Telemaco, di meritare l’eredità dei padri dell’Europa...».
Oggi Renzi-Telemaco termina il viaggio con un magro bilancio e con una situazione interna di imprevista difficoltà, dopo il pasticcio del decreto fiscale con la norma salva-Berlusconi approvato da Palazzo Chigi e poi maldestramente ritirato e rimandato al 20 febbraio, dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Un sotterfugio, una svista. Peggio, un blitz di Natale per blindare il patto del Nazareno. Che si è capovolto in un imbarazzante stop per Renzi, l’uomo che non può fermarsi mai. Proprio ora che si avvicina il Big Game. Chiuso finalmente il semestre, le dimissioni di Giorgio Napolitano daranno ufficialmente il via alle manovre per la successione al Quirinale, in corso in modo sotterraneo da settimane.
Tutto il semestre renziano, in realtà, è stato giocato sulle esigenze domestiche. L’Europa come vincolo per far passare le riforme in Italia: l’eliminazione del Senato elettivo, il Jobs Act sul mercato del lavoro, l’abolizione dell’articolo 18. In questo il governo Renzi ha cambiato pochissimo verso rispetto ai suoi predecessori.
«L’Europa ce lo chiede», è il refrain di tutti i governanti italiani da Maastricht in poi. Il Renzi style si è visto nell’approccio polemico verso le istituzioni europee. «In questi sei mesi abbiamo vissuto due presidenze in una», raccontano a Bruxelles. «C’era la presidenza italiana intesa come macchina diplomatica, grigia e tradizionale. E c’era il presidente Renzi, aggressivo contro la burocrazia europea». Una presidenza dottor Jekyll e mister Hyde, con la diplomazia guidata dal rappresentante permanente Stefano Sannino chiamato a un super-lavoro per coprire le uscite renziane. E i suoi errori.
Primo errore: i ripetuti attacchi contro gli euro-burocrati. «L’Italia non ne può più di andare in Europa e sentirsi fare la lezione da solerti tecnici e oscuri funzionari», ha ripetuto Renzi per sei mesi. Mettendo nel mirino anche gli italiani. Anzi, loro più degli altri: «Ci sono funzionari italiani che pensano che possono fare carriera a Bruxelles parlando male dell’Italia: è un riflesso pavloviano», li ha sbugiardati il premier al raduno della stazione Leopolda. C’è molto di vero, ma il problema è che la maggior parte di loro ha dovuto affidarsi alle istituzioni europee per fare carriera, non potendo contare in nessun modo sull’appoggio del loro governo nazionale, a differenza di quanto accade ai loro colleghi delle altre cancellerie.
L’italiano più alto in grado tra i funzionari della Commissione, il bolognese Stefano Manservisi, capo di gabinetto di Federica Mogherini nell’ufficio di vice-presidente della Commissione e Alto rappresentante per la politica estera, non deve nulla all’attuale governo, è da più di venti anni a Bruxelles e ha ricoperto in passato lo stesso incarico con il presidente Romano Prodi e con il commissario Mario Monti. È l’unico capo di gabinetto italiano. Il sottosegretario con delega agli Affari europei Sandro Gozi, anche lui con un passato in commissione Ue e nella squadra di Prodi, ha vantato il record di venti italiani nei gabinetti della commissione contro i 14 della gestione precedente, tra cui 4 vice-capi di gabinetto, ma nessuno di loro è in un portafoglio chiave (Concorrenza, Commercio, Industria, Trasporti) mentre la Germania vanta 5 capi di gabinetto, a partire dal potentissimo Martin Selmayr che affianca il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, la Gran Bretagna tre, la Spagna e la Finlandia due.
«Gli altri governi si sono tenuti le caselle più importanti e hanno concesso a Renzi il dicastero che tanto gli stava a cuore, la politica estera per la Mogherini», spiegano nella Commissione. «Lei è giudicata qui antipatica ma brava, il problema è che la congiuntura non gioca a suo favore, non è tempo di politica estera comune in Europa». I direttori generali tricolori sono in estinzione appena tre. Ci sarebbero stati, a rappresentare l’embrione di una nuova leva italiana a Bruxelles, i venti giovani assunti per il semestre come assistenti e collaboratori e catapultati a occupare incarichipiù impegnativi. Salvo scoprire, a semestre finito, che nessuno ha pensato a loro. Neppure un ordine di servizio o un lettera di referenza. La macchina della presidenza italiana si è retta sui distaccati, una dozzina, dai ministeri o da altri organismi nazionali. E dire che la presidenza del Lussemburgo che partirà a luglio ha arruolato come esperta giuridica un’italiana.
Secondo errore: puntare tutto sul Consiglio europeo e snobbare la Commissione. «Capotavola è dove mi siedo io», teorizzava quando era in auge Massimo D’Alema. Coerente con questo imperativo, Renzi si è concentrato sulle dispute interne al Consiglio da lui presieduto: le schermaglie con la Merkel, il gioco delle alleanze con Hollande. Mentre ha riservato soltanto battutacce contro la vecchia Commissione Barroso e la nuova presieduta dall’eterno lussemburghese Juncker. Una predilezione che l’Italia rischia di pagare cara. Nel Consiglio dominano i tedeschi, la tela diplomatica degli interessi italiani si è sempre tessuta nella Commissione e nel Parlamento, due fronti ora lasciati sguarniti.
Infine, i dossier su cui si era impegnata la presidenza italiana. Un flop l’agenda digitale, su cui Renzi si era mobilitato personalmente con il vertice di Venezia: ancora indietro il progetto Continente connesso, l’Italia resta agli ultimi posti in classifica per uso di Internet, più di un terzo degli italiani non l’ha mai usato. Un buon risultato sulle politiche ambientali, con la posizione unitaria dell’Europa sugli Ogm alla conferenza Onu di Lima costruita dall’Italia. Sulla questione politicamente più calda, l’immigrazione, l’Italia ha portato a casa la chiusura di Mare Nostrum e l’avvio del programma Triton partito il primo novembre, con 17 paesi coinvolti, che costerà tre milioni al mese a carico dell’agenzia europea Frontex anziché i 9 milioni che pesavano sull’Italia.
Ma gli sbarchi sono ripartiti: 270mila immigrati irregolari entrati in Europa nel 2014, il 60 per cento in più rispetto al 2013, con Frontex e la stampa europea («Record di irregolari in Europa, la metà passano dall’Italia», ha scritto in prima pagina il quotidiano progressista spagnolo “El País” il 3 gennaio) che punta il dito contro il governo italiano, non la Lega di Matteo Salvini. Il lavoro? Nulla di fatto, o quasi. Tutto affidato alle parole magiche flessibilità e crescita e al piano Juncker da 315 miliardi. In attesa di riaprire, almeno, i margini dei trattati per allargare le spese per gli investimenti, come previsto nel documento conclusivo dell’ultimo vertice della presidenza italiana, il 18 dicembre. Infine, niente di memorabile sul piano culturale. Un anno fa, di questi tempi, un gruppo di lavoro messo in piedi a Palazzo Chigi era all’opera per organizzare un mega-convegno internazionale sull’identità europea, con i grandi nomi dell’intellettualità, alcuni dei quali scomparsi nei mesi successivi, da Jacques Le Goff a Ulrich Beck. All’epoca il premier era Enrico Letta, Renzi fece cadere l’idea. Più che il passato contava il futuro. Il suo.
Sei mesi che rispecchiano la figura dell’euro-populista Renzi, pochissimo interessato a un’azione pedagogica sull’opinione pubblica interna sulle radici dell’Europa. Il semestre italiano è passato, il premier lo archivia senza tanti rimpianti, gli effetti speciali sono mancati. E ora, nel giro di poche settimane, ci saranno le elezioni in Grecia, il voto sul Quirinale, e poi il possibile tentativo italiano di forzare i trattati dell’Unione. Il vero semestre di Renzi comincia ora.