«Landini è lavorista, ma l’idea è giusta e la speranza è che porti fino in fondo lo scontro frontale con Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani». Il sociologo Emanuele Ferragina commenta il varo della Coalizione sociale promossa dalla Fiom: «Ci vorranno molti anni» spiega, «sarà come per la costruzione della classe operaia»

Emanuele Ferragina, assistant professor di sociologia a SciencesPo Parigi, è autore de "La maggioranza invisibile", un saggio pubblicato da Rizzoli che dà buone basi teoriche alle recenti mosse di Maurizio Landini, all’idea della «coalizione sociale».
 
«Il percorso è giusto» dice infatti il professore all’Espresso, «ma se l’obiettivo è quello di mobilitare gli oltre 20 milioni di italiani senza rappresentanza», aggiunge, «non credo che possa riuscirci Maurizio Landini, con la sua impostazione lavorista». Secondo Ferragina, non basta neanche citare i precari, le partite Iva, per intercettare l’impegno e i voti di chi è disilluso, non vota o ha votato, poi pentito, Beppe Grillo: «Anche il caso di Podemos ci ricorda il tema della credibilità. Serve qualcuno che abbia vissuto a fondo, sulla sua pelle, il mutamento della società, che non è più fordista e che ci impegnerà in un lavoro lungo molti anni». Servirà pazienza («dimentichiamo di quanto tempo e quante battaglie ci sono volute per far sentire gli operai parte di una classe. Oggi abbiamo davanti una sfida simile»), e serve coerenza, soprattutto: «La maggioranza invisibile non può certo esser rappresentata da un viceministro del governo Letta come Stefano Fassina». «Quella di Landini», continua Ferragina nel commento, non a caso, «è comunque una buona idea e dobbiamo anzi sperare che vada fino in fondo anche nello scontro con Susanna Camusso e il Partito Democratico».

Analisi
"Coalizione sociale": di cosa parla Landini
16/3/2015
Ferragina, a leggere i commenti di molti militanti delle associazioni, dei partiti di area e anche sindacali, sembrerebbe che il suo libro La maggioranza invisibile sia una delle letture centrali per capire l’operazione che ha in testa Maurizio Landini quando lancia «la coalizione sociale». Si può dire?
 «Per certi versi sì, ma vorrei subito esprimere un dubbio. Io non credo che Landini possa essere la persona che riunisce chi compone la maggioranza invisibile, a cui con Alessandro Arrigoni abbiamo dedicato il nostro libro. Perché lui è un lavorista, rappresenta i metameccanici, e questa coalizione potenziale, non è lavorista, e anzi spesso non lavora affatto. Il mondo in cui è nata la Fiom è un mondo fordista in cui non torneremo più. Voglio partire da questa precisazione un po’ teorica forse, non perché non mi convinca l’idea lanciata da Landini, che è giusta, ma perché ci si renda conto di quanto è profondo il mutamento sociale con cui dobbiamo fare i conti».
 
Landini è troppo lavorista e quindi l’idea coalizione sociale non funzionerà?
«No, non è detto. Tolta la premessa, non si può che valutare positivamente lo slancio del leader della Fiom, evidentemente consapevole anche dei limiti e dell’inattualità dei sindacati. E anzi bisogna sperare che l’idea di un movimento di base lanciata da Landini possa essere finalmente il modo per scalciare via quel coacervo che ha finora paralizzato la vecchia sinistra, che sono ognuno a suo modo, i vecchi leader radicali, parte della Cgil e la minoranza del Pd».
 
Le fa dunque piacere, immagino, che le reazioni dei dem alla prima riunione della coalizione sociale siano state di stizza: «Non si va da nessuna parte con le urla di Landini» hanno detto in tanti a partire da Roberto Speranza.  
 «Che ad arrabbiarsi siano soprattutto Bersani e Camusso è un bene, paradossalmente, perché solo dalle ceneri del sindacato fordista può nascere qualcosa di nuovo. Io non credo che Landini possa mobilitare veramente la maggioranza invisibile ma può iniziare un processo, questo sì».
 
Intervistato ovunque, Landini comincia sempre dichiarando di voler rappresentare «i lavoratori». Dice «anche quelli precari che troppo spesso non hanno incrociato i sindacati», ma parla sempre di lavoratori. È questo che non la convince?
«Il problema non è neanche tanto quello che dice, Landini, ma quello che incarna. Non voglio esser frainteso: tra tutti, è quello che mi piace di più, è il più genuino, è uno che sta con il disagio, con le lotte, che conosce i bisogni delle persone. Ma mi chiedo se possa mobilitare veramente, e non credo sia un caso che dalla Spagna e dalla Grecia ci arrivino esempi diversi: Podemos in Spagna, soprattutto, ha attivato un movimento tagliando i ponti con il passato, affidandosi a chi nella precarietà, nella maggioranza invisibile, ci vive. Anche in Grecia Syriza, che pure ha federato la sinistra tradizionale, lo ha fatto con uno come Tsipras. Landini si è reso conto che i tempi sono cambiati, di come è cambiata la composizione sociale, ma non so se può incarnarla. Ma - ripeto - già sarebbe tanto se portasse fino in fondo lo scontro frontale con il sindacato di Susanna Camusso e con la minoranza del Pd, con i Fassina vari».
 
Perché?
«Perché la maggioranza invisibile non può certo sentirsi rappresentata dall’ex viceministro del governo Letta. È una questione di credibilità: può anche dire cose corrette, ma non potrà mai mobilitare nel profondo le persone».
 
È il movimento 5 stelle che diceva di voler portare i cittadini normali in parlamento. Non è finita benissimo.
 «Perché la soluzione non è affidarsi alla gente comune, ma a chi, preparato, vive però la contemporaneità. Guardate che la soluzione non è neanche quella di affidarsi ai ricercatori, come si dice che abbia fatto Podemos. Non l’hanno fatto neanche in Spagna, in effetti, perché hanno eletto non solo docenti universitari, ma disoccupati, precari e impiegati: il requisito è di essere preparati e consapevoli».
 
C’è dunque il problema delle solite facce.
 «È l’errore che è stato fatto finora, sì: non fare sponda a nuove figure che non siano invischiate, che siano subito riconoscibili come parte della maggioranza invisibile. Ce ne sono anche dentro ai partiti, penso a Marco Furfaro, in Sel, ma ce ne sono tanti altri, solo che sono offuscati da una marea di altra roba che ha esaurito la sua funzione e non lo riconosce. E la gente non vota più».
 
Landini dovrebbe parlare di «cittadini» come fanno ad esempio gli spagnoli di Podemos, più che di lavoratori?
 «Il punto è cosa mobiliti con cosa. Il richiamo al lavoro mobilita e ha mobilitato per decenni il cittadino fordista, ma oggi il lavoro non è più l’ingrediente centrale per chi vive il tema della redistribuzione delle ricchezze. Perché il tema è l’uguaglianza, l’accesso alla casa, l’affitto, i diritti di cittadinanza. E, certo, il lavoro, ma come uno degli elementi. Intendiamoci: io non sono completamente convinto neanche da Podemos, però è un fenomeno interessante, che ha raccolto questa visione».
 
Lei pensa che quella del lavoro - sulla quantità e sulla qualità del lavoro - non sia la prima battaglia, sentita da tutti?
«Io non penso che la gente non debba lavorare, che non ci sia questa esigenza, ma più del lavoro - e lo spiega bene anche il libro di Thomas Piketty - ritengo sia centrale il tema della redistribuzione delle ricchezze. Se servisse una conferma basta osservare come l’economia dei servizi ha portato i salari a non crescere più all’aumentare della produttività, dirottando lavoro, sì, ma soprattutto, appunto, ricchezza».
 
Ma cos’è la maggioranza invisibile?
«Noi nel libro diamo una definizione larga, perché il libro è narrativo, la maggioranza invisibile è composta da disoccupati, neet e precari, dai migranti, e dai pensionati poveri, perché non c’è nessuna differenza tra giovani e vecchi, ma solo tra chi ha e chi non ha. In Italia sono circa 25 milioni di persone. E chi non ha è legato da un filo spesso invisibile, che bisogna invece svelare. La badante immigrata e l’anziano povero, ad esempio, condividono, forse senza accorgersene, la stessa realtà».
 
Chi ne ha raccolto finora i consensi?
 «Al netto dell’altissima astensione, alle elezioni del 2013 un pezzo consistente di questi voti, quelli degli atipici e dei precari, è stata raccolta dai 5 stelle; mentre i pensionati, anche quelli poveri, hanno continuato a votare il Pd, nonostante non gli convenga. Lo hanno fatto anche perché spinti dal sindacato, e perché il loro è un voto più conservatore. Con Renzi, poi, è successa una cosa interessante: lui non ha raccolto il voto della maggioranza invisibile, ma un pezzo della maggioranza invisibile non ha più votato Grillo, che infatti ha perso tre milioni di voti su otto. Non è un caso, dunque, che il Movimento 5 stelle abbia ripreso, il tema del reddito di cittadinanza che è un tema caro proprio alla maggioranza invisibile».
 
Fausto Bertinotti dice che «quella di Landini sembra una efficace percorso di politicizzazione dei movimenti senza dover battere la scorciatoia della formazione del partito politico». «È una rottura degli schemi tradizionali», dice l’ex segretario di Rifondazione. L’incerta ricaduta politica non è però anche un limite, un rischio?
«Il fatto di non creare un partito è giusto. Perché c’è la necessità di una nuova rappresentazione di base, sociale, di un sindacato, di un associazionismo illimitato, non legato al solo lavoro ma alla comune necessità di uguaglianza. A cosa servirebbe adesso un partito? Per rappresentare cosa, se non hai prima ricucito una base? E poi dove, se il parlamento italiano è commissariato da quattro anni? Poi, se posso, è un errore anche concentrarsi solo sull’Italia. Ce lo dimostrano la difficoltà che sta incontrando la Grecia: la maggioranza invisibile funziona solo se è internazionale. Anche in Germania, per esser chiari, c’è una maggioranza invisibile, con i 10 milioni di minijob. Il nemico infatti non è la Germania, ma è chi, in Germania come in Italia, impone le politiche dell’austerità competitiva».
 
Detta così sembra tutto difficilissimo, ogni sforzo inutile.
«Bisogna solo ricordarsi di quello che i sindacati hanno fatto cento anni fa e che prima sono nate le Unions e poi il Labour. Per questo la “coalizione sociale” è sicuramente una buona idea, perché quello che abbiamo davanti non è tanto un problema di rappresentazione politica, quanto un problema prepolitico. Non ci sarà alcuna capacità di incidere finché la maggioranza invisibile non si riconoscerà come gruppo sociale. Io sono un sociologo della politica e credo fortemente nella funzione dei partiti, ma qui si tratta di ripartire dalle basi. E sì, ci vorranno molti anni, sarà difficile, ma non certo inutile. Dobbiamo solo sapere che siamo ad un passaggio di una storia che è lunga e in cui il periodo di organizzazione sociale tipico del fordismo ha rappresentato un’eccezione. Diamo per scontate troppe cose che non lo sono: diamo per scontato di poter parlare di classe operaia, ad esempio, immaginando la sua costruzione come un processo facile. Non è stato così: ci sono voluti decine di anni, migliaia di morti, centinaia e centinaia di picchetti. Con la maggioranza invisibile siamo al punto di partenza».

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