«Ritrovarmi come ministro dell'Industria un esponente nazionale di Confindustria mi ha sempre fatto una certa impressione», dice Enrico Rossi, «perché fin dall'inizio c’era un oggettivo conflitto di interessi che poi è esploso». Il presidente della regione Toscana interviene così sul caso di Federica Guidi, che si è dimessa dopo la pubblicazione delle intercettazioni sul caso Tempa Rossa. Per Rossi il fatto che Guidi rassicurasse il compagno Gianluca Gemelli sul destino di un emendamento che sbloccava gli affari, però, è solo un episodio perfino ridicolo, sintomo di un problema più grande: «Anche con Renzi si è confermata», spiega Rossi all’Espresso, «una tendenza che dura da un po’: il maggior partito della sinistra appalta agli imprenditori un tema cruciale come lo sviluppo economico».
E, per tornare al passato, Rossi cita il caso di Matteo Colannino, ministro ombra allo Sviluppo economico sotto la segreteria di Veltroni. Sugli attacchi a Maria Elena Boschi, che difende, e sulle crescenti difficoltà di Renzi proprio nel rapporto con i poteri economici, Rossi aggiunge: «Quando governi è evidente che il mito del rottamatore che si è fatto da solo crolla. Ed è questa la ragione per cui io insisto tanto sulla ricostruzione del partito: senza un partito tutto picchia sulla spalla del leader che è solo e più vulnerabile».
Però è proprio un po’ il cardine del renzismo, il rapporto stretto con le imprese, Rossi. Non è un caso che Marchionne dica che in Italia voterebbe per Renzi.
«Non è un caso, no, ma Renzi ha solo proseguito su una strada già tracciata. Ricordo che Walter Veltroni fece Matteo Colaninno, patron della Piaggio e presidente dei Giovani industriali, ministro ombra proprio allo Sviluppo economico. Non c’era una telefonata al fidanzato, che aggiunge una nota ridicola alla vicenda, ma il disinteresse per un conflitto di interessi evidente era lo stesso. Gli imprenditori vanno ascoltati, e bisogna anche farsi consigliare, io ne ricevo ogni giorno qui in Regione: ma poi serve la politica perché è la politica che tiene a mente quale interesse sociale si vuole rappresentare e verso dove si vuole andare».
L’economia affidata un banchiere, il governo di una città a un manager. Che il Pd, al pari di altri partiti della famiglia del socialismo europeo, ceda terreno alla tecnica e al mercato è un dato ormai quasi identitario.
«Non mi pare che in Francia o in Germania, e ancora meno in Inghilterra, la politica abbia ceduto il passo come è avvenuto da noi, ma quella che Renzi cavalca è più l’idea che i partiti non servano a nulla e che se trovi qualcuno nella società civile questo improvvisamente ti risolve i problemi. Ma non è così, perché quello che conta è la linea politica e quello che i partiti quando sono buoni ti garantiscono è una relazione sociale, un’elaborazione e buon personale politico».
Chi vedrebbe ora a via Veneto?
«Mi sono sempre chiesto perché non sia stato fatto ministro Claudio De Vincenti».
Lei però di Guidi non era poi così scontento.
«La voglio dire così: quando avevi una vertenza sul territorio e a Roma c’era Silvio Berlusconi al ministero era proprio inutile andarci, perché non avevano neanche i fascicoli aperti sulle scrivanie. Con il governo Monti eravamo lì, più o meno. Poi con Letta e con Renzi la situazione è decisamente migliorata, soprattutto però quando era viceministro De Vincenti, che era molto presente anche fisicamente e veniva a vedere sul posto per capire come aiutarci a risolvere crisi che in effetti sono state risolte. Quello che invece è continuato a mancare è un piano complessivo: quello dalla Guidi non l’ho mai capito».
I 5 stelle chiedono le dimissioni anche del ministro Boschi. Secondo lei poteva non sapere che l’emendamento che consente al governo di imporsi in cantieri controversi potesse interessare il compagno petroliere della Guidi?
«Guardi io ho conosciuto la Boschi solo quando è diventata ministro e non penso possa avere il ruolo che le imputano».
Però è ormai una figura ingombrante, prima la vicenda di Banca Etruria, ora l’emendamento. Cosa ne è del mito dei giovani rottamatori che si son fatti da soli, senza poteri e senza cordate?
«Quel mito è evidente che era destinato a rimanere tale. Quando vai al governo o ti prepari per arrivarci, il potere e le cordate arrivano. Ed è questa la ragione per cui io insisto tanto sul partito: senza un partito tutto picchia sulla spalla del leader che è solo e più vulnerabile».
Lei al referendum del 17 aprile come voterà?
«Preferisco non dirlo ancora, anche per far discutere il partito più serenamente. Comunque non è questa vicenda che deve far cambiare idea: bisogna pensare all’ambiente e allo sviluppo».